Oggi è un giorno importante per la tutela del lavoro: si celebra la giornata mondiale per la salute e la sicurezza del lavoro – quest’anno dedicata allo stress lavoro-correlato e ai rischi psicosociali – contemporaneamente alla giornata mondiale per le vittime dell’amianto. Forse è un caso, forse no. O più semplicemente il caso è la somma della nostra ignoranza (Laplace), perché in effetti questa coincidenza ha qualcosa in comune: lo stress lavoro-correlato è oggi quello che l’amianto è stato ieri, qualcosa che distrugge lentamente.
L’art. 28 del testo unico sicurezza del lavoro impone a tutti i datori di lavoro di valutare lo stress lavoro-correlato cioè il rapporto (vissuto come senso di inadeguatezza rispetto all’atteso) tra l’organizzazione dell’attività e la salute, intesa quale stato di completo benessere fisico, mentale e sociale non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità, in linea con la definizione dell’OMS.
I rischi psico sociali pertanto riguardano l’assetto organizzativo, la progettazione e la gestione del lavoro in relazione al contesto sociale di riferimento e spesso sono costituiti da violenza, molestie, mobbing. E soprattutto lo stress lavoro-correlato che può anche quintuplicare gli incidenti sul lavoro, è associabile alla metà delle assenze (oltre il 40% più lunghe di quelle dovute ad altri fattori), riduce le prestazioni lavorative, qualitativamente e quantitativamente, incentiva i conflitti relazionali.
Lo stress lavoro-correlato non è dato dallo stato di salute mentale del lavoratore ma dalle ricadute che vi sono sul suo benessere a causa dei fattori organizzativi. Per questo la nostra legislazione pretende che il datore di lavoro si occupi – anche mediante il medico competente – di valutare l’entità di tale associazione causale tenendo conto delle differenze di genere, culturali, mansionali, sociali, anagrafiche etc.
Ogni giorno la cattiva organizzazione permea nel benessere del lavoratore iniettando un virus di disequilibrio, innescando un lento subdolo processo di disagio. Non è molto diverso da quello che l’amianto ha provocato per decenni insinuandosi negli interstizi pleurici uccidendo a distanza di anni.
Oggi l’amianto è il conto (carissimo) che paghiamo alla politica industriale retta dal profitto, all’edilizia senza scrupoli, e alla voluta ignoranza scientifica sugli effetti dell’amianto che per decenni hanno retto l’economia di molti paesi, non soltanto il nostro. In Italia l’uso dell’amianto è vietato (non totalmente) dal 1992 ma in16 Paesi della regione europea dell’OMS lo utilizzano ancora, soprattutto nei materiali da costruzione, e in alcuni casi continuano a produrlo e a esportarlo (Albania, Andorra, Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Bosnia Herzegovina, Georgia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Monaco, Moldavia, Federazione Russa, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan). A questi si aggiungano importanti paesi produttori quali Canada, Brasile, India. Anche negli Stati in cui l’amianto è vietato l’esposizione della popolazione persiste a causa dell’uso passato e della sua permanenza nell’ambiente.
Con la Dichiarazione di Parma del 12 marzo 2010 tutti i Paesi europei si impegnavano entro il 2015 ad agire sui rischi identificati di esposizione ad agenti cancerogeni, mutageni e tossici per la riproduzione, compreso l’amianto. Alcuni di quegli impegni sono stati attuati dal nostro Paese, altri rimangono lettera morta.
Una riflessione seria sul tema dell’amianto deve tener conto, da un lato, dei problemi per chi vi è stato esposto professionalmente nei decenni scorsi, almeno fino al 1992 (anche in via indiretta, ad es. familiari o abitanti in zone contigue a stabilimenti in cui veniva usato) con una curva crescente di mortalità prevista fino almeno al 2020, e dall’altro dei problemi sociali, sanitari, ambientali per noi e le generazioni future per tutto il tempo (ahimè lungo) necessario alla bonifica totale del nostro territorio. Secondo un rapporto dell’OMS circa la metà di tutti i decessi per cancro sviluppato sul posto di lavoro è causata dall’amianto. A rischio sono soprattutto gli abitanti dei 16 Paesi che non l’hanno ancora messo al bando, come invece ha già fatto l’Italia da 24 anni con la L. 257/92.
Sono circa 15mila le persone che ogni anno perdono la vita in Europa a causa di patologie amianto correlate ma occorre tener conto che molti Stati non hanno un sistema di raccolta dei dati.
In Italia si registra una media annua di 2400 morti da amianto (la metà per mesotelioma maligno) e 3000 casi di tumori asbestocorrelati. Più di 6 morti al giorno, 1 morto ogni 3 ore e mezza, un nuovo malato ogni 2 ore! Il 70% presenta una diagnosi certa, probabile o possibile di esposizione professionale; l’1,6 % è attribuibile ad una causa extralavorativa; le altre cause sono ambientali, familiari o ignote. Questi dati si leggono nel V° rapporto del Registro nazionale dei mesoteliomi (un istituto che il mondo ci invidia, all’avanguardia rispetto a tutti i paesi europei, con un solo esempio simile in Corea del Sud) raccolti dai centri operativi regionali. Purtroppo sono numeri approssimati per difetto poiché non v’è omogeneità nella raccolta dei dati, non sempre vengono intervistati i soggetti ammalati e/o i familiari al fine ricostruire l’anamnesi lavorativa, non sono uniformi le procedure di classificazione, non sempre c’è la disponibilità delle schede di dimissione ospedaliera o referti, non sempre si incrociano con i dati provenienti dal registro tumori (peraltro non presente in tutte le ASL). Ma soprattutto vi sono regioni che non procedono alla capillare raccolta dei dati creando un quadro nazionale evidentemente incompleto. I numeri veri quindi sono ancora più drammatici.
Le regioni, cui costituzionalmente è affidata la gestione sanitaria, dal 1992 avrebbero dovuto redigere i piani regionali sull’amianto (mappatura, decontaminazione, smaltimento, bonifica) ma a distanza di 24 anni alcune regioni devono ancora provvedervi, altre li hanno prodotti negli ultimi anni, solo alcune virtuose li hanno approntati negli anni ’90: anche per l’amianto c’è un nord e un sud.
Senza questo censimento si procederà sempre per emergenza e per questioni specifiche (si pensi all’Ilva di Taranto, alla terra dei fuochi, all’Eternit di Casale Monferrato, all’Isochimica di Avellino).
In Sicilia vi sono grandi emergenze: Gela, Milazzo, Priolo, San Filippo del Mela, per citare i maggiori siti industriali dove l’amianto agisce tuttora in una sinergia micidiale con altre sostanze cancerogene adoperate e poi inalate da lavoratori e popolazione, con effetti tragici sulla procreazione sana, sull’ecosistema, sulla salute della collettività. Per non parlare del caso Biancavilla già oggetto di uno studio specifico dell’istituto superiore di sanità.
A fronte di ciò la Regione Sicilia è intervenuta solo nel 2014 con una legge regionale che dovrebbe avviare una fase risolutiva del censimento e nel 2015 con una circolare che avvia la raccolta di dati attraverso i Comuni ancora oggi in corso. Soltanto 24 anni dopo! Ma siamo ben lontani da una politica di bonifica. Per bonificare occorre prima conoscere dove e quanto amianto c’è.
Così passano gli anni, a discutere sugli incentivi per la bonifica, l’esportazione dell’amianto per smaltimento, i costi delle bonifiche e dello smaltimento, l’amianto negli edifici pubblici, scolastici e ospedalieri, la prevenzione e riduzione dell’inquinamento ambientale, la tracciabilità e il traffico di rifiuti, l’inquinamento indoor. Per lo smaltimemto attualmente le regioni dotate di almeno un impianto specifico sono undici, per un totale di 24 impianti (5 in Sardegna, 4 in Piemonte e Toscana, 2 in Emilia, Lombardia e Basilicata, 1 in Abruzzo, Friuli, Liguria, Puglia e la provincia autonoma di Bolzano), e in Sicilia? Continuiamo a contare i morti e i bambini malformati.
Bruno Giordano
Magistrato preso la Corte di Cassazione
Consulente della Commissione di inchiesta del Senato sugli infortuni e malattie professionali