Giovedì, 24 aprile, si è aperto il 62° Trento Film Festival della Montagna e proseguirà fino al 7 maggio tra eventi e proiezioni dei film.
Per il 2014 sono programmati 27 film in concorso di cui due in anteprima mondiale e 17 in prima italiana.
Le altre opere saranno presentate in più sezioni, da Alp&ism dedicata all’alpinismo e alle varie discipline alpine; a Destinazione…Messico; Orizzonti vicini, dedicata al Trentino-Alto Adige, Terre alte, con documentari d’autore riguardanti la vita delle popolazioni di montagna; Eurorama, con film etnografici di tutta Europa e infine Natura Doc, con una selezione di documentari naturalistici ospitati dal MUSE – Museo delle Scienze di Trento.
L’apertura del FilmFestival: Montagna cantata è stato appannaggio del coro della SAT, con canzoni tradizionali e di montagna, con proiezioni di filmati d’epoca e letture da parte del Club Armonia, l’ultracentenaria e più longeva filodrammatica della città.
Il 25, per l’inaugurazione del programma cinematografico è stato proiettato The epic of Everest: Il film ufficiale della spedizione all’Everest del 1924, che si concluse con a morte di due dei migliori alpinisti di allora, George Mallory e Andrew Irvine.
Il 26 al Café de la Paix, per Destinazine… Messico l’inaugurazione del murales “Destino Mexico”, tutto giocato su bianco, nero e verde, molto particolare e interessante. A seguire Ad alta voce, lettura collettiva di “Trincee” di Carlo Salsa e “Diario di Guerra” di Paolo Caccia Dominioni. Una testimonianza molto forte del dramma della Prima Guerra Mondiale, cui ricorre il Centenario e che, come omaggio a questa ricorrenza, riporto il brano che ho letto personalmente per condividerlo con i lettori.
Da TRINCEE (pagg. 156-159)
Il giorno di Pasqua se la sono organizzata loro la festa, così, tranquillamente, senza dir nulla a nessuno.
Vigeva una tacita intesa d’armistizio, come durante tutte le solennità: c’era stato solamente un po’ di chiasso bonario a mezzanotte precisa, con grande sfoggio di razzi, di fucileria e di mitragliatrici, quasi per dare l’annuncio della ricorrenza: surrogato di campane a stormo durato dieci minuti, compresa la sfuriata dell’artiglieria che aveva restituito gli auguri.
Ma, durante tutta la mattinata, avremmo potuto metterci a cavalcioni sull’orlo della trincea a fumare la sigaretta, sicuri di arrivare indisturbati fino alla cicca.
Il Merzli si elevava con quei suoi ruderi in cima, tutto tarlato dal lavoro umano e dalle unghiate dell’artiglieria, tutto zuppo dello sgocciolio della pioggia incessante: in quelle righe tumultuanti di terra spugnosa, poi si infilò in una tana bassa, come una biscia.
Qualcuno là dentro, fumava in silenzio; uno ruminava alle prese con una pagnotta che doveva sapere di muffa.
Una voce:
Cimitero di noi soldati
Forse un giorno ti vengo a trovà!
Tapum tapum tapum
Tapum tapum tapum!
Volumi di nebbia cominciavano ad impigliarsi nelle cime del Merzli, e pareva dovessero franare giù, a sommergerci.
Un grande silenzio, sul frusciare di fiumana che spioveva dal cielo: e un gran freddo che prendeva il cuore.
D’improvviso, un colpo di fucile scoccò le sue due botte roche per quel deserto di fosse, come un rintocco ribattuto dall’eco.
Quello che canticchiava s’interruppe: gli si era ingorgata una nota nella strozza.
Quell’altro la smise di ruminare e buttò la pagnotta fuori, in una pozzanghera.
Molon s’affacciò.
“Nato d’un can!”.
Si accucciò ad una feritoia, a sbirciare.
L’alba sguainava fredde lame di luce attraverso la nébbia.
C’era, fuori, solo un viluppo di morti cementati nella fanghiglia.
Molon, col naso infilato tra due sacchetti, ispezionava una per una tutte le feritoie, lassù, per sorprendere qualcosa: la durò un pezzo: alla fine sbuffò la sua insofferenza e tenne questo convincente discorso:
“Ghe penso mi”.
Si tolse dalla feritoia, diguazzò qua e là con l’incuria di un ubriaco, in cerca di un fucile che funzionasse.
“Molon, che cerchi?”.
“Un fucile, sior tenente”.
“Smettila”.
“Hanno sparato, sior tenente”.
Voleva mettersi a cecchinare, quel minchione, e a fargli cambiare proposito erano sudori.
“Hai capito, Molon?”.
“Siorsì. Ma i xe sta loro a spararne”.
“È stato uno della nona, che s’è lasciato scappare un colpo”, intervenne gravemente uno.
Molon parve rabbonito da quella informazione. Certo, non l’avrebbe personata se, anche il giorno di Pasqua, lo avessero zuppificato col solito tiro a segno. “Pasqua!”. Ma egli, quel giorno, si sentiva perfino di mettere nella canfora il suo vecchio conto e magari anche di fare una partita a tarocchi, facendo finta di niente, con quelli là. Ma non tollerava provocazioni, d’accordo.
Si ficcò sotto un telo da tenda ad accendere la pipa: poi si mise a pensare chi sa che, tutto assorto. Ne pensò una delle sue, e, al solito ne venne fuori un disastro.
Attese che il tenente si fosse rimesso a scrivere a quella sua ragazza che lo metteva sempre di pessimo umore, e si accinse ad attuare una sua idea. Preso da un irrimediabile bisogno di simpatia, aveva stabilito di issarsi sui sacchetti per trasmettere, a mezzo di segnalazioni internazionali, gli auguri di circostanza a quei signori dell’ultimo piano.
Si arrampicò sulla scarpata. Ma, mentre stava lì, appollaiato su un sacchetto come un gufo sulla stampella a fare le ombre cinesi, si vide un elmetto affiorare dalla trincea austriaca: e inalberarsi sotto quello, con una certa circospezione, una figura stralunata che, a tutta prima, sembrò un fantoccio spinto su da un invisibile burattinaio.
Ma no: era una kamarad, quello.
Il fantoccio, dopo un istante di perplessità, si mise a gesticolare come un mulino a vento. e gridò:
“Molon! Ohè! Molon!”.
Caspita, si conoscevano: erano amici. Avevano lavorato insieme in una fabbrica boema e si ritrovavano a Pasqua, uno di fronte all’altro, nemici.
Molon, senza tante cerimonie, saltò dal parapetto e si mise a correre su per l’erta: L’altro vista l’iniziativa, gli rovinò incontro come un’iraddiddio.
Parecchi soldati, qui e là cominciavano a far capolino, curiosando: e, come quei due se l’intendevano ottimamente tra loro, ci fu chi si arrischiò, da ambe le parti, a scavalcare i parapetti. Il contagio si comunicò a tutti: in breve tutti, italiani e austriaci, furono fuori, disarmati, come due comitive di escursionisti che s’incontrino a caso, a fraternizzare. Per mettere la ghirba fuori dalla trincea, gratuitamente, non era cosa che potesse capitare tutti i giorni, e, già ch’era Pasqua, bisognava chiudere un occhio: quelli scomunicati di lassù, d’altra parte, apparivano vestiti dei nostri stessi panni logori, e anche nella loro povera carne afflitta si effigiavano lo stesso nostro patimento e lo stesso nostro destino.
Gli ufficiali cercarono a tutta prima di opporsi: poi col pretesto di rimediare allo scandalo e di rimettere un po’ di disciplina, finirono con l’uscire anche loro.
Ma le vedette dell’artiglieria avvistarono quell’insolito trambusto tra linea e linea. Una tempesta di granate si abbatté improvvisa, ululando, come un castigo.
Il terrore scompigliò quel branco d’uomini: la turba urlante si precipitò alla rinfusa verso le opposte linee.
Due soli, separati per un momento dal rigurgito dei fuggiaschi, si indugiarono.
“Molon! Qua un altro baso!”
Il vento di un’esplosione li fece crollare così, abbracciati, come due tronchi abbattuti da una raffica d’uragano.