È stata inaugurata a Vittoria la nuova area di Osservazione Breve Intensiva (OBI) presso il Pronto Soccorso dell’ospedale “Guzzardi”. L’area è stata intitolata alla memoria di Giuseppe Morana, storico dirigente amministrativo dell’ospedale, alla presenza dei familiari e delle autorità locali. La cerimonia ha visto la partecipazione del Direttore Generale dell’ASP di Ragusa, Giuseppe Drago, della […]
A SCICLI IL GRUPPO DI LETTURA LEGGE BONAVIRI
02 Gen 2016 17:03
Perché un tempo fui fanciullo
e fanciulla, arbusto e uccello
e muto pesce del mare
(Empedocle)
Da anni leggo e rileggo Giuseppe Bonaviri, sempre con grande interesse e compiacimento, probabilmente mai comprendendolo appieno, eppure cercando in continuazione di cogliere, o meglio ricevere, persino inconsciamente, l’impronta della rivelazione, in una sorta di visione-intuizione (perinoein) che trascende la bellezza stilistica della scrittura e la narrazione stessa, complessa e semplice al medesimo tempo, quanto affascinante. Bonaviri scrive: “… da un cestello andava offrendo, per farne sentire la dolcezza, delle caramelline fatte con succhi di carrube misti a semi di ruta e di papavero. Erano pillole d’un dolce mielato, gradevoli per chi le succhiava. La composizione era stata tramandata, di famiglia in famiglia, dagli antichi abitanti nativi, i Volsci. I quali le mangiavano, come ci fa sapere Livio nel x libro delle sue Storie, per combattere la paura degli spiriti dei morti e della gran solitudine in cui vivevano tra boschi e conche vallive. In tal modo emergeva in loro un senso di sicurezza associata a visioni di tempi passati.” Ecco, leggo Bonaviri come assaporando e succhiando in bocca queste malinconiche caramelle mielose.
Italo Calvino, in seguito alla lettura di Notti sull’Altura, in una lettera allo scrittore siciliano, confidava la sua difficoltà a comprendere il filo narrativo, e però subito lo rassicurava, poiché la ricchezza della scrittura sarebbe stata comunque fonte di grande soddisfazione per ogni tipo di lettore. Bonaviri è uno scrittore semplice e complesso, le piacevolissime difficoltà a seguire i suoi occultismi, nel perdurare del percorso catabatico della fabula, sono compensate dall’istintuale e immediato sopraggiungere della chiarezza emozionale, l’epopteia illuminante. Una sensazione, quest’ultima, che ha il sapore agreste del ritorno alla terra ancestrale, primordiale, riconduzione del molteplice all’unità come finzione cosmico-panteistica. Ho usato sin troppe parole “difficili”, ma credo di averle esaurite tutte qui, o perlomeno lo spero e cercherò di impormelo, ad impedire di rincorrere una falsa via di conoscenza ridondante di scolarizzazione mendace. Del resto, il contadino bonaviriano avverte: “Quando voi saprete leggere e scrivere, vi allontanerete dal nostro mondo, sarete lontanissimi e non ci capiremo più”. Ed è in parte vero, ci siamo allontanati troppo, basta osservarci attorno, verso le campagne devastate da seriali ed orribili costruzioni di cemento, o lungo i flutti marini e fluviali insozzati, oppure ancora inalando l’aria irrespirabile, tutto concorre nel manifestarci la nostra ripugnanza quotidiana produttrice di immondizie. Si tratta dunque di seguire in qualche modo il percorso conoscitivo dei saggi di Notti sull’Altura, che per quanto vano possa ipotizzarsi sin dall’inizio, appare quale unica via possibile di sopravvivenza per la caduca umanità: “…bisognava seguire una via, rintracciando chi aveva seminato insoliti simboli, che se congiunti in una concatenazione di eventi dovevano farci scoprire un fondamento.”
Esiste in realtà un’altra voce, quella forse più vicina alla razionale coscienza post-illuministica, giungente sempre dalla ingenuità rurale: “Nonno Michele non aveva ancora finito se, dopo qualche attimo di silenzio, portandosi sotto un’acacia, disse che le cose arcane non hanno senso, né posseggono corpo alcuno, se non quanto basta a farne inosservabili essenze vaganti, e ciò si avverava in primavera come nelle altre stagioni, durante le quali lasciavano le loro esalazioni, e scioglievano, corrompevano e annegavano la natura nel caos. Il fegato – aggiungeva – allora vuol bere ed esige vino ed acqua, il pensiero letargo o frenesia, e la tristezza nasce e si spande persino sulla neve che copre monti e colline.”
L’ironia, l’eleganza espositiva e l’inventiva, oltreché il senso di appartenenza alla tradizione contadina e lucreziana, sono forse le ragioni elettive che mi hanno indotto a scegliere Bonaviri quale autore da leggere e consigliare al Gruppo di Lettura di cui mi onoro far parte in Scicli. Anche questa una realtà che ormai vivo con lietezza da qualche anno insieme a un gruppo di amici (si sceglie di volta in volta un testo, o un autore da leggere individualmente e successivamente lo si commenta congiuntamente presso l’accogliente e raffinata Libreria Don Chisciotte di Scicli). Trovandomi nella condizione di scegliere, in occasione del mio turno, ho colto la medesima opportunità per interrogarmi ancora una volta sulla più retorica e priva di soluzioni tra le questioni esistenziali, quella sul senso del mondo e della coesistenza con esso (di me come uomo, e dunque procedimento in corso di metamorfosi inestinguibile, in continua e forse non del tutto voluta assimilazione nell’ambito vegetale. Suggestioni imprescindibili l’innesto bambino-albero, da Notti sull’Altura, e le considerazioni di Giuseppina, la madre, in Il Vicolo Blu), così che Bonaviri mi è parsa opzione obbligata e piacevolissima.
“Don Nanè, nostro padre, disse – Nessuno si sa spiegare come possano crescere fra speroni rocciosi quei pini, ecco perché sono così contorti.
E Giuseppina, nostra madre – Figli miei, fatevi il segno della croce, quegli alberi son uomini mutati in pinastri e vivono ormai aggrovigliati in mezzo a quei burroni e sassi.”
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