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“INIZIO” DI PARTITA, DELLA COMPAGNIA GODOT
17 Dic 2015 09:40
Mentre i 6 personaggi pirandelliani vanno in cerca del loro autore nel gioco altalenante tra l’essere personaggio definito, appunto, e persona per lo più mutevole e indefinibile, i 4 personaggi di Beckett in “Finale di partita” – sarebbe meglio scrivere tre personaggi, a causa del mezz’uomo padre e della mezza donna madre “buttati” nella pattumiera da un Hamm quasi dimentico del ruolo di figlio – vanno alla ricerca di un qualche significato che la loro vita sembra non avere più o non averne mai avuto.
Un fil rouge lega tra loro, per quanto mi riguarda, gli ultimi lavori portati in scena dalla Compagnia Godot in questi anni, a cominciare da Le sedie di Ionesco, L’aumento di Georges Perec, aggiungo Il Marinaio di Fernando Pessoa e, adesso, Finale di partita di Beckett.
Io sono grato alla Compagnia Godot, e lo scrivo da molto tempo ormai, per il loro ruolo di educatori che svolgono da anni a Ragusa. Il loro non è un certo tipo di teatro ma il Teatro che può fare a meno anche di una location propriamente detta e addirittura trasformare la sala Ideal di Ragusa in un Globe Theater di shakespeariana memoria. E sono grato ai loro giovani allievi, al … LUNS… il Legame Unico Nel Sentire che insieme a Federica e Vittorio hanno saputo allacciare con la città !
In quest’ultimo decennio, forse ventennio o ancor di più trentennio, non si sente più, non si ascolta. E non è vero che la storia non si ripeta. E ciò non è un assurdo. E’ assurdo invece la capacità sempre più allenata a non ascoltare i bisogni di una società che probabilmente molto più di trenta anni fa si è via via sgretolata, quasi a sparire del tutto. La Compagnia Godot non dà lezioni di sociologia ma di vita, e sono lezioni molto più semplici da far proprie di quanto si creda. Il difficile è ascoltarle, capirle. Per superare l’impasse, ecco anche i vari Ionesco, Perec, Pessoa, Beckett e altri che hanno fatto dell’assurdo il teatro della vita. Perché è importante la loro mediazione? Perché, a differenza di quanto si creda, il messaggio quasi apocalittico contenuto nelle loro rappresentazioni “svalvolate” contiene una forte presa di coscienza di quanto la realtà abbia a mano a mano annientato, distrutto, reso inefficace, un viaggio nella memoria attraverso i campi di battaglia di una guerra che ha davvero bruciato e polverizzato il genere umano. E non a caso tutte le ambientazioni (a parte il più giovane – benché, ahimè, già passato a miglior vita Perec – che fa del gioco di parole e dell’ironia la ricetta sempre valida per dipingere le difficoltà della vita e la paura del proprio fallimento), immaginate dagli autori nei loro lavori sono foriere di un mondo che non esiste più, post atomico, apocalittico, in cui i personaggi si muovono solo grazie ai loro ricordi che hanno peraltro dimenticato, perso significato o di cui si ricordano all’apparenza solo le fatuità.
Anche in Beckett infatti le domande non mancano. “Non credi che noi si abbia qualche significato ?” – chiede Hamm, il vecchio cieco in carrozzella, quasi un lascito dell’appena trascorsa apocalissi, al suo fedele e scontroso servo da una vita Clov, che gli risponde “Noi? Quale significato ?”
Sono i dialoghi dell’assurdo che ogni autore fa con se stesso e nei quali ciascun personaggio, generato dalla necessità dell’autore medesimo di confrontarsi con la sua propria realtà, diventa ora il pubblico invitato ma assente ne le Sedie di Ionesco e la coppia di vecchi suicidi che ne ha quasi precettato l’arrivo, ora le tre donzelle de Il Marinaio di Pessoa che, evanescenti, si perdono nelle loro memorie e nella paura che tutto finisca, vegliando l’amica morta, quasi vivessero sulla stessa isola in cui il marinaio, frutto di un sogno raccontato da una di esse, si rifugia naufrago e dove a poco a poco si sente sempre più a suo agio come in una patria mai avuta, ora Hamm, Clov e i genitori “senza gambe e messi in pattumiera”, grazie ai quali si accentua sempre più la misura del tempo che passa quasi inutilmente e che trasforma la realtà in rimpianto, la storia nella speranza di un futuro che in realtà non vi sarà mai, la speranza, appunto, in rassegnazione e timore di rompere un equilibrio cui ci si è stancamente abituati proprio perché non vi è più nulla e nessuno in cui credere o che abbia la parvenza di avere un significato, un’importanza vitale.
“La fine nel principio, eppure si continua…” come se tutto fosse da sempre senza senso sembra essere il manifesto del teatro dell’assurdo, che poi tanto assurdo non è, se con tale aggettivo si voglia qualificare solo quel “prima”, nella vita del mondo, che ha reso tutto quanto assurdo e che solo la forte presa di coscienza ricordata a metà di tale analisi può contribuire, grazie al forte simbolismo creato da Beckett e dagli altri autori, a renderla necessaria quando diventi prioritario il bisogno di tramandare ai posteri ingombranti ma edificanti verità.
Concludo accennando ancora una volta a quel legame unico nel sentire che la Compagnia Godot, Federica Bisegna, Vittorio Bonaccorso, i loro allievi e tutti i loro stakeholders di cultura, bellezza e insegnamento hanno saputo allacciare con Ragusa e che deve essere ancora di più potenziato. Il Teatro, anagramma di attore e che da tanti anni rappresenta il pane quotidiano di Vittorio e Federica, non è un luogo solamente fisico ma un valore sociale, il modo di sentire, con la sensibilità propria di un attore, quel che davvero conta ai nostri tempi. Soprattutto è un metodo di didattica sociale, da attore a spettatore, per insegnare cioè una dolce e liberatoria lezione di vita. La vita, proprio lei, oggi ha bisogno di più ruoli educativi e d’esempio che non possono più limitarsi a famiglia e scuola, anche perché la velocità del tempo non lo permette più. Nella società globale dei nostri giorni, occorre coalizzarsi per riuscire ad evitare, tutti insieme, che si realizzi la nera pennellata contenuta in uno degli ultimi dialoghi tra Hamm e Clov…. “mettimi nella mia bara” – dice Hamm a Clov – “non ci sono più bare” – risponde quest’ultimo e ciò, al di là del terrificante presagio, indica una simbologia altrettanto aberrante, il non credere più a nulla, più a nessuno, credere di non avere avuto una storia – che Hamm cerca inutilmente di inventare e inventarsi – in cui rispecchiarsi per potersi ancora meglio riflettere nel futuro, e far calare il sipario sapendo o immaginando, tra mille tormenti, di essere stati o di essere ancora vivi. Così è (se vi pare)…
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