ENNA E CALTANISETTA “GRANAIO DELLA REPUBBLICA…”

Durante i miei viaggi in bus o in treno, da Modica verso Palermo e viceversa, ho notato come i viaggiatori stranieri rimangano incantati alla visione di questi paesaggi dell’entroterra, con lo sguardo fuori dal finestrino immortalano con foto questi luoghi, mentre i viaggiatori locali non sono per nulla attratti da quanta bellezza ci sia fuori dal finestrino. E’ il paesaggio dell’entroterra siciliano ,che più di ogni altro incarna lo stereotipo di paesaggio con colline, vallate e fiumi. Basti pensare alla valle dell’Imera meridionale, quasi come fosse stata disegnata da un pittore.

Decantato e descritto da molti scrittori, pittori e visitatori di tutto il mondo è il paesaggio culturale del grano. Molti hanno scritto di questo paesaggio facendone emergere l’asprezza e la durezza insita nella sua terra.

Chi non lo conosce veramente non può capirne e apprezzarne la bellezza; molti siciliani attraversandolo non ne colgono queste caratteristiche, forse perché noi “siciliani” siamo troppi abituati a vedere il bello, come se i nostri occhi fossero appannati e non ci si fermasse a guardare oltre queste colline monotone e queste valli che hanno il colore dell’oro. Si è più affascinati dalle zone costiere più popolate e dotate di maggiori servizi. Ma reputo personalmente che questo territorio, descritto dalle province di Enna, Caltanissetta ed in parte dall’agrigentino, sia tra i posti più interessanti della Sicilia sia per le sue caratteristiche fisiche, geologiche, ambientali e paesaggistiche. Caratterizzato da un andamento collinare continuo interrotto da qualche affioramento roccioso che di tanto in tanto scorcia queste sinusoidi e da queste valli profonde, questo territorio d’estate appare come un mare dorato dove le spighe fluttuanti al vento rappresentano un mare d’oro, solcato non da onde ma dai segni lasciati durante la mietitura dai mezzi o ancora dai viottoli di attraversamento. La vegetazione è rada, puntuale e s’addensa lungo le valli e le strette giaciture dove l’acqua ne permette la sopravvivenza.

E’ il territorio che fin dall’antichità fu conosciuto per questo grande alimento: il grano. In epoca romana fu definito “il granaio della Repubblica”. Un territorio conquistato e voluto da molti per la sua ricchezza, centralità e bellezza; ogni insediamento non era scelto a caso, questo territorio, un tempo ricco di foreste e acqua è stato sfruttato esclusivamente per la coltivazione del grano in maniera massiva senza nessun intervento di miglioramento vegetativo e sfruttato al massimo con più di un raccolto l’anno, esso ha offerto sin da sempre il sostentamento per molti.

E’ il paesaggio di Demetra, dea della fertilità, che diede l’agricoltura in dono all’uomo perché superasse l’inverno infecondo. Per migliaia di anni il dono di Demetra ha modellato e rimodellato la natura, lasciando i segni che ancora oggi ne contraddistinguono l’aspetto. E’ questo il paesaggio culturale del grano, legato alla cultura, alle tradizioni ed ai personaggi che tanto hanno scritto, raffigurato e parlato di questo paesaggio, ma che ha ancora tanto da dire.

Io credo che non si possa amare pienamente un luogo se non lo si consce appieno. Attraversando questi luoghi si è attratti dalla valenza paesaggistica, dalla stranezza e durezza di questo paesaggio, dall’aspetto aspro e quasi sofferente. Ma sofferente lo è per davvero, piange dei suoi lunghi sfruttamenti sia superficiali con le coltivazioni estensive che per millenni sono avvenute senza tregua né principio, sia nelle sue viscere, scavato e percosso per l’estrazione di zolfo e salgemma. E’ un territorio che ha dato molto senza contare i danni e che oggi vuole riprendersi il suo valore non solo di bene fisico ma anche di paesaggio culturale. Esso è stato descritto più di ogni altro territorio siciliano, Verga, Sciascia, Pirandello per citarne alcuni, lo hanno immortalato descrivendone le caratteristiche fisiche e sociali che legate alla crudeltà ed inciviltà dei padroni ne hanno segnato il volto e di conseguenza la propria durezza ed asprezza. E’ ora di riscattare questi luoghi, di dare loro l’importanza e la centralità culturale che sempre hanno avuto, una centralità che ad oggi è solo fisica.

Se alla bellezza naturale si affianca la conoscenza storica, archeologica, artistica e delle sue tradizioni, questo paesaggio diventa straordinario sia per le sue caratteristiche diverse rispetto ad altri ambiti territoriali, che forse conosciamo meglio, ma che vale la pena riscoprire. Ma per chi è abituato a vedere la bellezza ogni giorno, come noi siciliani, è difficile apprezzare e dare peso a quanto di eccezionale e raro abbiamo. Forse, e voglio pensare che sia questo e non altro, il motivo per cui quanto poco si sia fatto per riscattare questo lembo di Sicilia, immutato e fermo.

La coltivazione del grano ha plasmato questo paesaggio agrario e la stessa civiltà contadina, i cui linguaggi, ritmi e stili di vita, cerimonie religiose e profane, tradizioni alimentari e rurali, riti comunitari, cocci sparsi di antiche strategie di sopravvivenza, tuttora rimandano alla trepidante attesa del pane, legata fin dalla notte dei tempi alla vicenda sotterranea dei chicchi di grano affidati dai contadini alle cure della Madre Terra, dispensatrice del cibo di cui si nutre l’umanità.

Questo territorio dedito esclusivamente alla produzione di derrate alimentari per il commercio, grazie ai favorevoli fattori climatici, ha lasciato ben  visibili i segni architettonici quali le fattorie, i bagli, i casali e le masserie che contraddistinguono questo paesaggio rurale.

Nella solitudine delle campagne queste costruzioni, unità complesse che amministravano il latifondo, dalla volumetria semplice, realizzate nei posti da dove era possibile il controllo di una vasta porzione del feudo. Le masserie del centro Sicilia sono del tipo a baglio o a cortile aperto. Le campagne, inoltre, erano costellate da ex mulini idraulici, ricoveri temporanei, pagliai e fondaci, realizzati con conci di pietra calcarea locale, rasata da malta e da tetti in legno sovrastati da coppi di argilla chiara.

Un territorio dominato dal giallo del grano e dello zolfo, che contempla attento e silenzioso i suoi rilievi dorati in attesa che qualcuno li attraversi.

Qui anche Demetra invoca durante l’inverno il ritorno della figlia Kore, facendo udire il suo pianto tra gli anfratti della roccia, la pietra gialla di Monte Sabucina, la quale riflette nelle sue trame la forza del sole.

Le distese di seminativi testimoniano un atavico rapporto tra l’uomo e la natura, la semina ed il raccolto, la ciclicità delle stagioni, l’abbondanza e la sterilità. Tutto questo basta a descrivere questo paesaggio, cangiante e immutato, solare e lunare.

Cosi come i suoi colori al mutare delle stagioni; verde intenso durante la stagione primaverile, giallo oro durante la stagione estiva, raggiungendo il suo apice durante il periodo della mietitura del grano che rappresenta ancora oggi, come sempre, l’alimento di cui l’uomo si è sempre sostenuto.

Un paesaggio lamentoso, scostante, tipicamente ripiegato su se stesso in un atavico individualismo arabo, fortemente sfiduciato da un possibile cambiamento, cronicamente insoddisfatto, incapace di guardare e progettare un futuro migliore, poco orgoglioso delle proprie radici culturali.

Ma se pensiamo che in queste terre le Dee hanno incontrato la Natura, occorre che le Idee incontrino questi luoghi per far si che lo splendore e la riconoscenza di un tempo possano ritornare. In fondo non ci vuole molto, la bellezza è ancora viva e forte in questi luoghi, ben conservata come tanti secoli fa.

Daniela Pagliazzo architetto paesaggista

 

 

 

 

 

 

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