BREVE CRONACA DI UNA RIVOLUZIONE

Da un lato un giovane disoccupato, Mohamed Bouazizi, che si suicida dandosi fuoco dopo essergli stata negata la licenza per una bancarella al mercato che già deteneva illegalmente e senza problemi pagando il pizzo alla polizia, dall’altro lato lo strapotere economico dei Trabelsi e la forza poliziesca opprimente del Presidente Ben Alì. La forbice tra oppressori e oppressi si è allargata a tal punto da sfociare in una rivolta, che si è poi subito trasformata in una rivoluzione con tratti di guerra civile. Il presidente Ben Alì ha tentato invano di rimanere ad una poltrona che non gli apparteneva più, ricorrendo ai ripari con aperture di ogni genere che sono cadute tutte nel vuoto. Come gli è stato rimproverato durante la manifestazione del 14 gennaio: «23 ans: trop pour comprendre».

La chiave di lettura della rivoluzione tunisina è in parte tutta locale, ma in larga parte ha dei contenuti e dei significati importanti che rappresentano situazioni più generalizzate che i governi di tutto il mondo e le organizzazioni internazionali – Unione Europea e ONU –  devono saper leggere e capire con una certa urgenza. In Tunisia vi era un regime che durava ormai dal 1987 con un presidente che è rimasto al potere grazie alla forza di controllo della sua longa manus, che era la polizia. Essa controllava tutto ed era fortemente corrotta. Ancora adesso, sparando contro i civili e partecipando ai saccheggi, sta tentando di dimostrare a tutta la nazione che ordine e disordine dipendono da lei e dal suo vero capo Ben Alì. Uno strapotere politico, dunque, la cui contro faccia era un’avidità enorme, ben localizzata quasi esclusivamente nell’ambito di una sola famiglia.

Una situazione per nulla tollerabile che è precipitata, probabilmente, anche per la congiuntura internazionale di una crisi economica che ha accentuato il malessere di un popolo formato da molti giovani, che ha maturato negli ultimi anni coscienze aperte con forti sensibilità laiche e democratiche desiderose di emancipazione, di affermazione, di crescita sociale, economica e culturale. La categoria più appropriata che i tunisini usano per descrivere la tirannia di Ben Alì è quella di “mafia”. Né fascismo né dittatura, ma mafia: è questa l’indicazione che dovrà essere un importante segnale di ricerca per gli studiosi che dovranno tentare in futuro di interpretare il senso di questa rivoluzione che avrà da dire tanto anche per spiegare i fenomeni sociali ed economici di questi anni in tutto il mondo. Per chi conosce bene la Tunisia, sa che si trattava di qualcosa di atteso ormai da qualche anno. La società tunisina era una bomba pronta ad esplodere. La calma era solo apparente e frutto di una repressione capillare. I segnali di tensione forte e di nervosismo sociale c’erano tutti.

Questo non significa affatto che il popolo tunisino non sia tra i popoli più miti e accoglienti al mondo. La patologia non era tra il popolo, ma in un governo dispotico che non aveva più saputo modificarsi e adattarsi ad una società che aveva comunque vissuto profondi cambiamenti. Sabato 8 gennaio sono partito per Tunisi con previsione di rientrare il 15. La sera precedente leggendo di una ribellione scoppiata a Kasserine dissi ad un mio amico di sentirmi sicuro nel prevedere l’inizio di un colpo di Stato che si sarebbe consumato a giorni. Non immaginavo, onestamente, che protagonista ne sarebbe stata una rivolta popolare che ritenevo invece essere solo l’occasione. Evidentemente, l’evoluzione tunisina è andata oltre quella che pensavo: non disponeva di un nuovo dittatore pronto a prendere il posto di Ben Alì, ma disponeva di un popolo determinato e irremovibile nella sua richiesta di giustizia.

Si è trattato di una democrazia nel senso più brutale del termine, un esercizio del dominio del popolo che necessariamente non poteva più arrestarsi. Ben Alì, infatti, nonostante le aperture e comprensioni iniziali, se fosse riuscito a ri-consolidare il suo potere sarebbe passato molto probabilmente a una repressione cruenta: e questo i tunisini lo sanno e hanno perciò continuato la lotta. Da tutto ciò si può trarre anche una forte lezione per tutti quei disegni politici occidentali che sostengono il bisogno di esportare la democrazia laddove non c’è. La Tunisia ha dimostrato che la democrazia nel suo senso primigenio non è più localizzabile né presso i greci, né presso gli americani, ma è insista nell’interiorità dell’uomo e nel suo senso di giustizia che si ribella e si riprende ciò che gli è dovuto. L’augurio va proprio ai tunisini perché sappiano da subito arrivare a forme istituzionali che gli consentano di licenziare i governanti non graditi senza dover ricorrere alla violenza e che si arrivi nello stesso tempo, un po’ ovunque, alla maturazione di soggetti politici più onesti, meno avidi, che sappiano acquisire meglio il senso di ciò che fanno. (Giorgio La Rocca)

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