Femminicidi: finiamola con la retorica ipocrita e le “giustificazioni” pseudo-psicologiche

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Stiamo sbagliando tutto? Scusatemi, lo domando da anni. A voi le risposte. Le liturgie annuali contro la violenza sulle donne servono a qualcosa? I riti delle giornate dedicate, al di là delle buone intenzioni, scalfiscono il fenomeno? La retorica delle analisi antropologiche sul “maschilismo” e la “cultura patriarcale” intercetta e interpreta davvero le radici del dramma? Il richiamo all’educazione affettiva ha un senso risolutivo? O i corsi sull’empatia sono utili solo a chi è già empatico? Le spiegazioni psicologiche e i profili degli omicidi tracciati in tv, sui social e sui giornali, risuonano come attenuanti? E davvero spiegano questi comportamenti estremi? La tempestiva risposta rispetto alle denunce è sufficiente? Giulia non ha denunciato perché si fidava (accade spesso così). 

Infine è stato arrestato. In Germania. Ancora nella sua auto. Quello che in tanti chiamano “l’ex fidanzatino”, facendo torto a Giulia. È vivo e vegeto, contrariamente a quanto molti dicevano. Era scappato. Non si è costituito. 

La mia formazione e la mia professione ora mi inducono e mi obbligano ad evitare toni vendicativi, insulti, ghigliottine. E i processi veri si fanno solo in tribunale. Io, di fronte a un essere umano, non divento un hater. Neppure quando ho ragione. E però una cosa devo dirla: non ditemi che a modo suo l’amava (sarebbe una bestemmia), non parlatemi di “dipendenza affettiva” di un ragazzino fragile, “angoscia abbandonica”, “raptus di follia” per spiegare un comportamento crudele che milioni di ragazzi, nelle stesse condizioni di stress, non avrebbero mai avuto. L’individuo è responsabile della sua crudeltà. E la crudeltà deve essere “punita” senza esitazione.

Questo è il primo principio dell’educazione psico-affettiva e pedagogica che (sociologismi e retorica dei buoni sentimenti a parte) deve essere insegnato a scuola e in famiglia. 

La deterrenza non la retorica. Alcuni sono impermeabili al tema dell’empatia. E questi devono sapere sino in fondo che non riuscirebbero a nascondere i loro crimini e almeno avere paura delle conseguenze concrete (per la loro vita) delle azioni che concepiscono nella loro testa. In alcuni casi solo la paura può fermarli. Non la retorica pedagogica.

Per questa ragione spero che il ragazzo abbia anche lui, ad esempio per tutti gli altri, il suo ultimo appuntamento con la Giustizia. Sotto gli occhi dolci e pungenti di Giulia. E di tutte le vittime come lei.

Riscrivere l’alfabeto. Riuscire a chiamare le cose con il loro vero nome è il primo passo per riconoscerle, definirle, padroneggiarle, usarle raccogliendole in una semantica chiara e non equivoca e obliqua degli affetti. A sproposito sovente usiamo espressioni come “amore tossico”, “amore malato”, “amore narcisistico” per descrivere cose che non hanno nulla a che vedere con il sentimento dell’amore. Amore è ben altra cosa.

Senza comprensione e indulgenza, dovremmo inaugurare una riflessione più profonda, pragmatica e netta sul femminicidio intesa alla prevenzione e alla deterrenza psicosociali, al fine di scongiurare il rischio che la violenza possa trovare ancora “attenuanti” in psicologismi o sociologismi drammaticamente sterili.

Lo ripeto anche qui. Per giorni ho letto troppe scemenze su questa tragedia. Sto leggendo da ore nei giornali e nei social parole inaccettabili. Non dite che è stato un “raptus di follia”. Lui ha scelto (e continuato a scegliere) di fare del male. Assistendo a ogni frame del dolore (le lacrime, le urla, la disperazione e il sangue) di una ragazza inerme. La povera Giulia è stata ripetutamente e barbaramente accoltellata dopo essere stata brutalizzata e sequestrata già per strada. Non nominate la “fragilità di un ragazzino”. Siamo di fronte alla responsabilità di un uomo. Non dite che è stato vittima dell’ossessione del possesso. Della gelosia. Della solitudine. Del panico. Non dite che non è riuscito a sopportare il successo di lei. L’allontanamento. La frustrazione per un “rimango davvero tua amica, ma non me la sento di continuare la relazione”.

Per lavoro, in trent’anni ho conosciuto centinaia di ragazzi e uomini sopraffatti dalla sofferenza per un “no”. Ma loro non hanno scelto di distruggere chi correva davanti a loro e di rubarle la vita. 

“Viltà”, “egoismo”, “crudeltà”, “scelta” sono le uniche parole da usare in questi casi.

Sto leggendo persino spiegazioni pseudo-psicologiche di un crimine (mentre pregavo perché il peggio non fosse accaduto). Non ci sto. Noi psicologi non dobbiamo dare l’impressione di “giustificare” larvatamente l’ingiustificabile. Altrimenti facciamo disinformazione. Scusate i miei toni.

E oso rivolgermi alle ragazze che leggono le sciocchezze che scrivo qui: se intuite che un vostro ex è prepotente, non sottovalutate, evitate gli ultimi appuntamenti, chiedete aiuto, non consolateli e mandateli subito al diavolo.

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it