Halloween non è il diavolo, ma i “Morticini” erano un’altra storia

La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola

Non sono stato sempre uno psicologo. Sono stato bambino anch’io. E ho un ricordo personale. Quello di una vecchia zia che non c’è più. Da tanti novembre oramai. 

Dei regali dei “morticini”, il suo per me era il più bello: i playmobil, quei ridicoli cowboy di plastica, protagonisti di storie e letterature meravigliose, nei miei giochi senza fine. Ci teneva a dire che a portarli sul divano del salotto di frutta martorana era stata la sua amatissima sorella (mia compianta nonna). Ma il bacio di ringraziamento lo voleva lei, mia zia. In carne ed ossa. Io sapevo che non erano i “morticini”. Era lei. Ma entrambi facevamo finta di essere scemi di pura bellezza. E in fondo, in Sicilia da sempre le cose essenziali nascono così. Come quando fingiamo che i nostri cari siano sempre con noi, nei nostri ricordi e ci parlino pure. E sappiamo che è davvero così. Ma non sappiamo spiegarlo a parole. O come quando, cardoni di mezzo secolo oramai, raccontiamo ai nostri lettori su un giornale on line una zia che non c’è più. Ecco perché vorrei comunicare dopo più di quarant’anni ai miei genitori che non mi sono mai bevuto quella balla ridicola. I morticini non portavano regali. I morti volevano solo che noi stessimo scemi e vicini. Almeno per un giorno. 

I ricordi più belli di alcuni, da bambini, a casa dei nonni, a letto sotto le coperte, con un senso ad un tempo di paura e gioia all’idea che durante la notte i morticini avrebbero portato un regalino. E finalmente la gioia al mattino nel trovare sul cuscino quel regalo.

Un tempo in cui si gioiva per poco, quando esisteva l’attesa, quando sentivamo i nostri morti vicini, quasi vivi in mezzo a noi, ancora capaci di darci quell’amore che ci avevano dato in vita, ancora capaci di coccolarci e di renderci felici per un soffio di tempo in un angolo eterno d’universo.

In tanti nipoti, a casa dei nonni, trovavano il loro “canniscio” colmo di frutta secca e martorana, caramelle, biscotti (“le ossa”). I morti a casa portavano i giocattoli richiesti (più o meno) ma le cose profumose nel cesto della nonna avevano un odore e un sapore indelebili. Per l’emozione, la sera prima alcuni andavano a letto prestissimo a differenza che negli altri 364 giorni dell’anno. Per alzarsi presto.

La visita ai defunti coincide anche con una tradizione della nostra città. Riti antropologici e liturgie psicologiche di sani assembramenti. Che restituiscono il sentimento della comunità in una vicenda terrena individuale comunque drammatica al cospetto della scomparsa dei nostri affetti. La terapia della memoria e della nostalgia che genera luce intorno. Giacché la meditazione sulla morte è una immersione nelle più profonde altezze della vita. 

Oggi invece per molti bambini e i pre-adolescenti è un’altra trama. Zucche e spettri nella notte sono un gioco sociale creativo e divertente. Ma i regali e i dolci dei Morticini al risveglio erano appunto un romanzo intimo.

La poesia del passaggio dei nostri cari resiste a fatica, langue. A giudizio di molti di noi, teneri e amabili boomers, la magia si sarebbe perduta dal giorno in cui ha preso piede il virus di questa malnata variante, la ricorrenza di Halloween, da quando per i bambini è più divertente truccarsi, mascherarsi e inzuccarsi tra scherzetti e dolcetti. 

Io non credo che in tanti genitori e nonni adulti abbiano abbandonato o trascurato il “culto” perché irretiti o sopraffatti da falangi di zucche ammalianti e cattive. E non ho nulla contro il modo, peraltro ludico e “memico”, col quale i bambini e gli adolescenti oggi indossano le “liturgie giocose di Halloween”. A fianco, tuttavia, andrebbero mantenute le nostre tradizioni. Non meno suggestive. Se è vero come è vero che esiste una spiritualità della memoria. Una poetica del ricordo e del “far finta che”, una grazia della trascendenza. Come quando i nostri cari, nel cuore della notte, si accingevano a tagliare la luce dei nostri sogni.

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