IN QUESTI GIORNI DI COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI

So che si nasce e che si muore, ma non posso conoscere ne la data della  mia nascita ne quella della mia morte.

In tutti i tempi l’uomo,  è rimasto smarrito davanti al mistero della morte, dibattuto tra il credere o no in qualcosa che la ragione umana non riesce a comprendere  cioè la vita dell’anima, che si distacca dalla sua parentesi  biologica.

La vita per il genere umano finisce con la cateresi del corpo, da tempi immemorabili l’uomo si ritrae terrorizzato dalla vista di un cadavere che percepisce come estraneo e come traguardo ultimo del suo essere terreno.

La morte, conosciuta solo da chi l’ha incontrata, per chi vive si è da sempre trasformata in un fatto culturale che ha imposto riflessioni sulla  origine dalla vita , sulle cause che la determinano, producendo dei comportamenti collettivi che si sviluppano in  rituali ricchi di simboli.

Simboli che sono  ancora presenti, nonostante la nuova realtà socio-economica, anche in  Sicilia dove  la credenza popolare vuole  che nel giorno dei defunti, questi portino doni ai bambini insieme a frutta e dolci..

Un modo questo per ricordare che gli affetti familiari sono eterni ed indissolubili, secondo il messaggio pervenutoci dal  Cristianesimo, che i parenti estinti restano vicino ai propri cari, come protettori del focolare, secondo anche la tradizione trasmessaci dai romani.

Il momento della maggiore angoscia era legato alla fase della decomposizione, durante la putrefazione gli uomini primitivi cercavano di placare il morto con dei rituali che duravano fino alla completa scarnificazione dello scheletro. Questi riti permettevano al gruppo di socializzare con la morte e finalmente quando le ossa diventavano imbiancate e purificate, l’ira e il furore del morto erano placate e il defunto assumeva un aspetto venerabile e solenne.

 A questo punto avveniva la “seconda sepoltura”, il morto, liberato dai suoi diritti e doveri verso il gruppo veniva reintegrato come antenato e nasceva così la sua nuova vita nell’aldilà. Nasceva così nell’uomo il desiderio di poter avere un sepolcro per il  corpo dell’uomo, ed è proprio qui che diventava eterno il suo ricordo.

Con la morte  si innesca la sofferenza per la  perdita di quanto ha avuto importanza nel vivere: funzioni, ruoli, cose, attività, relazioni con persone. E’ l’addio graduale a una vita che via via sfugge di mano. Si fa prepotente e inquietante l’esigenza di trovare un senso a quel che succede: perché si muore  e se quell’anima, svincolata dal corpo, aleggia ancora sopra i vivi. A poco a poco il morto diventava cadavere e il rapporto tra viventi e defunti assottiglia i suoi legami.

“U cunsolo” (da consolare), il pranzo che si preparava per la famiglia colpita dal lutto, costituiva l’emanazione del “refrigerium”:  il rito sepolcrale cristiano in suffragio del defunto.

Il “cunsolu” veniva offerto dai vicini e dai parenti nei tre giorni di “lutto stretto”, quando in casa non si accendeva il  fuoco e gli uomini non si radevano la barba. Le visite di condoglianze si protraevano più a lungo ed era costume portare cibarie varie. Un gesto di affetto e solidarietà collettiva nei riguardi di una famiglia, che oltre alla perdita subita, era costretta, per tradizione, all’inattività lavorativa per alcuni giorni..

La civiltà contadina incontrava il mondo dei morti sia sul piano della solidarietà con la terra, che come tecnica di fertilità. I morti, simili a semini, attendevano di tornare sotto nuova forma. Un tempo, queste mense di cibo,  solevano essere consumate accanto alle tombe in modo che il defunto fosse partecipe a tanta potenzialità rigeneratrice.

Oggi, un ricordo di questo rituale  si ritrova nella permanenza dei familiari, nel giorno dei defunti, attorno alla tomba o davanti alla cappella dove sono sepolti i propri parenti, dopo averle ripulite, infiorate e illuminate.

La società che ha oggi raggiunto l’opulenza rimuove tutto ciò che può richiamare la morte, la sua desacralizzazione porta la  desocializzazione, le manifestazioni pubbliche di lutto diminuiscono . Le veglie collettive e le lamentazioni pubbliche sono scomparse. Il dolore va sempre di più interiorizzato, la malattia riguarda strettamente la famiglia e il pianto liberatorio diventa atto vergognoso, la saggezza che considerava  il morire un evento naturale della vita si è smarrita.

La morte, la sofferenza, il dolore non vengono percepiti come spinte più forti alla vita e come base della solidarietà umana. Sembra che l’individuo sia costretto a rimuovere il sentimento della morte.

Forse apparteniamo a una civiltà sprovveduta di fronte alla realtà del morire?

Mi piace citare, in questo contesto, la poesia di Maria Caccia giunta seconda  al premio nazionale di poesia Giovanni Pascoli dell’UNITRE di Barga, Lucca.

“SARO’

E sarò anch’io

Prelibato banchetto

Per vermi e lumache

Non mancherà sul banco

La bevanda pregiata di colore rubizzo avrà

Un sapore salmastro di lacrime.

Ma fate presto, vi prego,

a digerire questa pelle d’asino

il cervello le mie interiore

che tutto torni alla terra!

E nella terra

Abbracciata a un seme

Sarò un fiore senza nome

Ancora parte del creato.

(sono terra..sarò terra felice di essere parte della natura)”

                                                                 Maria Rosa Vitale

© Riproduzione riservata

Invia le tue segnalazioni a info@ragusaoggi.it