A TAVOLA DA RENZI. RISOTTO ALLA MILANESE, PAELLA O GULASCH?

Lo chef Matteo Renzi va sparato alla meta. Con le sue parole: “una nuova legge elettorale che farà nascere una Nuova Repubblica”. Il pranzo è servito. La cucina parlamentare è in agitazione e già la settimana prossima assisteremo ai primi preparativi ufficiali. Che dire? Limitarsi ad augurare buon appetito? Vedere l’effetto che fa, come cantava con ironia Enzo Jannacci?  Da parte mia propongo tre riflessioni, verrebbe da dire “a contorno”.

Primo. Ringraziamo Renzi per la nuova legge elettorale, del resto se ne parlava da tempo. In verità, già dall’avvento della Seconda Repubblica – un ventennio, aggiungerei, perso in fatto di riforme e non solo. Se ci pensiamo bene il problema italico, in questi due decenni, non è stato quello di non riuscire a fare la riforma elettorale, ma piuttosto di averne fatte troppe: dal 1992 al 2013 abbiamo avuto ben tre regimi elettorali a livello nazionale molto diversi tra di loro. Dalla proporzionale quasi pura, ad un sistema misto per due terzi maggioritario e un terzo proporzionale (Mattarellum) e, infine, ad un proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento (Porcellum). Il caso è unico tra le democrazie occidentali mature, si deve cercare all’Est per trovare qualcosa che si avvicini (come la Polonia). In occidente possiamo ricordare la Francia con l’introduzione alla fine degli anni ’50 del doppio turno, e poi con il colpo di mano del presidente Mitterrand che tentò di salvare il Partito socialista in crisi di consensi spingendo nel 1985 per l’introduzione della proporzionale (subito però ritirata, nel 1988, anche perché inefficace). Guardando a sud, c’è anche la Grecia dove dall’89 al 2007 si contano almeno quattro leggi elettorali ma tutte nell’ambito della proporzionale rinforzata, per altro in un contesto dove tradizionalmente la materia elettorale è considerata uno strumento nelle mani del governo. Così come più unico che raro è l’intervento della Corte Costituzionale nella abrogazione delle leggi elettorali, se si escludono i casi di Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania e Slovenia (tra la fine degli anni ’90 e il decennio successivo). Insomma, se si guarda alla frequenza delle riforme elettorali di sistema (o fondamentali) e all’intervento risolutivo della magistratura costituzionale siamo più vicini all’Europa dell’est che all’Europa del Sud. Più al gulasch che alla paella. Se è così, allora il punto di merito non è una legge elettorale “nuova” ma se questa legge è “migliore”.

Secondo.  Sappiamo oramai che non esiste una legge o sistema elettorale migliore in assoluto, anche se sappiamo quali sono i peggiori. Soprattutto, noi italiani avremmo dovuto imparare, che la ricerca di sistemi complicati, con meccanismi spesso incoerenti produce facilmente effetti perversi (come non ricordare l’accoppiata tra scorporo, liste civetta e il fatto che nel 2001 il Parlamento non assegno il plenum dei seggi). Che dire della ricetta “a là amatricina” di Renzi? In che misura è un passo avanti rispetto al Porcellum? E che rapporti ha con il sistema spagnolo alla quale si ispirerebbe? Diciamo subito che questo ultimo accostamento è fuori luogo. La legge iberica non ha nulla in comune con l’Italicum se non per aspetti apparenti, un po’ come l’osso buco alla milanese con la paella valenciana (quella originale sia detto per inciso) che condividono solo il riso e lo zafferano. Gli obiettivi di Renzi sono chiari: stabilità, governabilità, riduzione dei poteri di ricatto dei piccoli partiti. Se vogliamo capire l’Italicum, e la sua efficacia nel realizzare quegli obiettivi, dobbiamo partire dal Porcellum rispetto al quale è un adattamento, o come dice qualcuno un aggiramento, dopo la sentenza della Corte. Tutti gli ingredienti base sono già contenuti in questo, tranne uno. Partiamo dall’involucro, entrambe le leggi sono dei sistemi proporzionali rinforzati. Entrambe prevedono un sistema di soglie legali multiple per accedere alla distribuzione dei seggi (più esattamente sono tre: per la coalizione, per le liste coalizzate e quelle non coalizzate. Nel complesso i partiti non coalizzati sono quelli più penalizzati (meno nel Porcellum, 4%, più nell’Italicum 8%), quelli coalizzati devono invece superare il 5%, contro il 2% del precedente sistema (speriamo almeno che salti la norma del ripescaggio della prima lista coalizzata sotto soglia del 2% valida nel Porcellum). Anche per le coalizioni la nuova legge è più esigente almeno il 12% contro il 10 della precedente.

                E, ancora, entrambe prevedono un premio di maggioranza. Su quello ammesso dal Porcellum, garantito e smodato, si è già detto tanto e si è pronunciata la stessa Corte Costituzionale dichiarandolo illegittimo. Sotto gli occhi di tutti è il caso attuale del Pd, che con poco più del 29% dei voti alla Camera ha ottenuto il 54%  dei seggi (340), un bonus di oltre 20 punti percentuali. Un anomalia per qualunque democrazia e che fa impallidire la legge Acerbo del 1923, mentre l’appellativo di legge truffa per la legge De Gasperi-Scelba del 1953 sembra con gli occhi dell’attualità oltremodo eccessivo. Inoltre, la nuova legge prevede il vincolo di non superare il 55% dei seggi (una sorta di diritto di tribuna per le minoranze sopra soglia). Qui si pongono già diversi problemi: la soglia è ancora bassa e il premio ancora elevato. Non si tiene conto del fatto che la logica delle soglie e del premio per funzionare dovrebbero evitare le c.d. coalizioni piglia-tutti, occasionali ed eterogenee. Infine, l’accoppiata soglie più premio in seggi è un’anomalia nei sistemi elettorali delle democrazie occidentali (tranne situazioni particolari come quella greca ma con un impatto sfumato).

                L’Italicum inoltre prevede il doppio turno, se nessuno dei partiti o coalizioni in lizza arriva a conseguire il premio di maggioranza. L’idea era cara a Roberto D’Alimonte che da tempo la considerava come una possibile correzione del Porcellum, non si capisce però perché mantenere così bassa la soglia se comunque si ritorna a votare se nessuno dei contendenti ha raggiunto la soglia. In questo modo abbiamo la certezza di conoscere (al primo o al secondo turno) chi governerà il paese. L’identificabilità del leader dell’esecutivo, che è tanto, non significa di per sé governabilità. La natura delle coalizioni in campo, la coesione dei partiti e le qualità dei leader sono tutti fattori altrettanto, se non più, importanti (come insegna l’ultimo governo Berlusconi). A questo punto avremmo una legge proporzionale super-rinforzata da soglie, premi e doppio turno. Un unicum nel panorama mondiale per grado di di-sproporzionalità. Forse l’incarnazione ibridata di quel “modello italiano di governo” che per D’Alimonte caratterizza già il livello comunale e regionale della competizione politica. Ovviamente ciò richiede anche un intervento sulla forma di governo, che elimini l’anomalia in chiave comparata del bicameralismo paritario (un fossile del quale qualche traccia si vede in Belgio e Romania) e che spinga verso un premierato efficace e ragionevole.          

Ancora, tanto l’una che l’altra legge prevedono il sistema delle liste bloccate. L’Italicum, però, fa propria la raccomandazione della Corte di abbinare la rigidità a liste corte di candidati. Ciò vuol dire anche ridisegnare le circoscrizioni elettorali in modo che ognuna di esse abbia solo 4-5 candidati da eleggere. Questo è l’elemento di rassomiglianza con il sistema spagnolo (ma lì l’ampiezza delle circoscrizioni 5-7 candidati è un valore medio con oscillazioni da un candidati Ceuta e Melilla, nel territorio africano, ai trenta e passa di Barcellona e Madrid). Il punto, però, è un altro. Mi riferisco al fatto che l’opinione pubblica dal 2005 è stata sommersa da critica sulle liste bloccate o chiuse che tagliavano con l’accetta il rapporto tra candidato ed elettori, tra aspiranti deputati e territorio (il fenomeno dei “paracadutati” già noto con il Mattarellum). Ora se tecnicamente è indubbio che lo stesso esito di riavvicinare i primi ai secondi si può raggiungere con strumenti diversi (collegi uninominali, preferenze, liste coorte) dal punto di vista politico non è certo la stessa cosa. Gli strumenti non sono neutri. Il votare (nei collegi uninominali o con preferenze) da comunque all’elettore una facoltà attiva di premiare o punire, certo l’atto del voto è spesso drogato (come insegna la storia dell’uso e dell’abuso dei voti di preferenza), ma un conto è poter scegliere un altro e ben diverso conto è avallare o subire scelte preconfezionate. Quanto meno una regola da vagliare sarebbe quella di prevedere un obbligo di residenza di almeno uno o due anni nel collegio prima dell’inserimento nella lista. Mentre diventa cruciale la questione di chi e come si scelgono le candidature, anche se pensare ad una estensione delle primarie per legge è forse ancora prematuro sul piano istituzionale. Un’altra questione che merita vedere cosa faranno i nostri chef è quella delle pluricandidature, cioè del fatto che ogni candidato si possa presentare in tutte le circoscrizioni (con liste corte queste non avrebbero senso, a meno che alla fine le liste non siano poi tanto corte), facoltà della quale hanno approfittato un po’ tutti i leader.

Terzo. Certo gli anni novanta del XX secolo per svariare ragioni, a partire dalla crisi delle istituzioni della  rappresentanza politica, hanno dato la stura a riforme elettorali significative in molte democrazie avanzate: Giappone, Nuova Zelanda, Israele e ovviamente l’Italia. Se si esclude il paese mediorientale, negli altri casi sono stati dei referendum ad introdurre dei sistemi misti pur partendo da situazioni opposte. Inoltre, in Giappone e in Italia la riforma avrebbe consentito per la prima volta dal dopoguerra l’alternanza al governo (a dire il vero, in Italia per la prima volta dall’Unità). Anche questo un primato non certo invidiabile in termini di qualità democratica. Ma le leggi elettorali non funzionano nell’aria, sono calate in un contesto e soprattutto riflettono le preferenze e le strategie degli attori in gioco. Oltre al menu dobbiamo vedere chi sono gli invitati. Ciò vuol dire che le leggi elettorali non si possono sostituire alla politica. Sono certo un prius ma non un deus (ex machina). Per es., in Italia la moltiplicazione febbrile dei partiti negli ultimi venti anni non è dipesa tanto dall’efficacia delle diverse leggi elettorali (queste hanno fissato le condizioni di partenza) ma dalle dinamiche parlamentari. Se escludiamo Forza Italia e il Movimento 5 Stelle tutti i nuovi partiti (da sinistra a destra) si sono formati in Parlamento da scomposizioni e ricomposizioni di precedenti formazioni. Nel 2008 quando Berlusconi stravince con il Porcellum i gruppi parlamentari che si insediano sono appena sei, il numero più basso dalle storia repubblicana, ma quando nel novembre del 2011 Monti procede alle consultazioni sono già diventati oltre trenta. Del resto, lo stesso Porcellum aveva dato prova di funzionare in modi diversi a seconda del tipo di gioco: è stato inefficace con coalizioni eterogenee e leader di governo deboli senza partito (nel 2006 e nel 2013), è stato efficace con coalizioni ristrette e leader con partito (nel 2008). Anche se poi lo stesso Berlusconi abilissimo a vincere e comunicare si è dimostrato pessimo nel governare e coordinare la squadra di governo e la sua “creatura” (dalla strappo di Fini, agli scontri senza quartiere con Tremonti). L’idea che la legge elettorale debba coibentare maggioranza, governo e leader mettendoli a riparo da tutto e da tutti non solo è infantile ma non è altro che una variazione sul tema dell’antipolitica. Da qui la constatazione che la coesione della maggioranza e dei governi (oltreché dei partiti) è a rischio stante alcune caratteristiche della nuova legge che continuano ad  incentivare dinamiche opportunistiche da parte di candidati e delle formazioni coalizzabili. Forse la saggezza della briscola in cinque (oggi si direbbe del Burraco) può tornare utile: l’esito di un gioco dipende dalle regole, ma una olta apprese dipende soprattutto dalla qualità dei giocatori e dalle loro mosse.         

 

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