LA MUSICA E LA SUA MAGIA

Perché la musica è una forma espressiva tanto potente? Da dove prende la forza dirompente con la quale irrompe nei nostri stati d’animo, li modifica, li modula, li esalta? Perché – tanto per fare un esempio – è così irrinunciabile all’interno di un linguaggio composito come quello del cinema, dentro il quale ha una funzione affatto secondaria, bensì di fondamentale importanza?

Gli studiosi di semiotica e i musicologi sono concordi nel ritenere che il “linguaggio” musicale sia un sistema sui generis, totalmente privo della funzione semantica, ovvero della possibilità – tipica dei sistemi di segni – di rappresentazione di significati che corrispondano alle diverse unità espressive (dalle unità minime come le “parole” a quelle complesse come le frasi o i periodi conversazionali).

Questa “anomalia” della musica, che dovrebbe apparentemente segnarla come un limite, si rivela in realtà come una potente capacità strutturale. Tale da rendere la musica l’arte emotiva per eccellenza.

Ciò che entra in gioco nel discorso sulla a-semanticità del linguaggio musicale è la considerazione che ciò che la musica non fa e non può fare è la rappresentazione dei significati concettuali, quelli cioè che appartengono al novero dei concetti categorizzati: un brano musicale non potrà, ad esempio, contenere “parole” o “frasi” che parlino di un gatto o di un viaggio o di un amore perduto nella maniera in cui il linguaggio verbale contiene – a tutti i suoi livelli – riferimenti concettuali a singoli elementi del mondo reale e ne può disporre componendoli in unità di senso sempre più grandi e complesse.

Nemmeno le singole note hanno uno status semiotico equiparabile a quello dei fonemi verbali. Questi ultimi sono mattoncini componibili che da soli non hanno alcun senso compiuto e che ricevono il “battesimo” del senso quando composte a formare parole e frasi, al livello delle quali la loro “pertinenza”  può essere perfino limitata (come a dire: provate a pronunciare una frase omettendo tutte le “a” o pronunciando le “t” come fossero “d”  e avrete comunque una buona certezza che sarete compresi….).

Le note, per quanto fisicamente somiglino ai fonemi, hanno una pregnanza espressiva e comunicativa assolute: una singola nota, ripetuta a pedale fuori da un contesto frasale, può da sola trasmettere una coloritura emotiva che una singola vocale o una singola consonante non hanno modo di evocare.

Questa peculiare espressività emozionale, non concettuale, è la vera forza della musica, capace di trasformarla in un potente strumento di fascinazione o – in certi casi – di manipolazione.

La sua sintassi, vale a dire la sua grammatica, la rende capace di agganciare le complesse dinamiche emotive che il linguaggio delle parole fatica a classificare, categorizzare, ridurre a concetti.  Ciò rende possibile, ad esempio a livello armonico come anche solo melodico, una sorta  di identificazione (proiettiva) con il testo musicale dei nostri più profondi livelli di esperienza emotiva.

 Seguire le evoluzioni dinamiche di una composizione può essere un utile e divertente esercizio sia in un contesto canonico come una sinfonia o anche solo un singolo brano (con i suoi “pianissimo”, “andante”, “allegro”….) sia nell’ambito di un testo filmico, dove la musica assolve spesso la funzione di sottolineare e amplificare i movimenti emozionali che corrispondono agli “eventi” narrati dal film sia a livello visivo che verbale.

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