Alessandro Tassoni nacque a Modena il 28 settembre del 1565 da nobile famiglia, ma ebbe un’infanzia difficile. Rimase presto orfano e fu in balia di parenti avidi del suo patrimonio; infine fu allevato dalla famiglia materna che provvide alla sua educazione.
Dopo corsi regolare alle università di Bologna, Ferrara e Pisa, dove studiò filosofia, retorica e giurisprudenza, nel 1592 fu proclamato dottore utroque jure (in diritto canonico e civile) e si ritirò nelle sue terre di Nonantola, presso Modena. Per qualche anno visse la vita bellicosa e gaudente della nobiltà dell’epoca.
Cinque anni dopo, abbandonò Nonantola per Roma, dove trovò impiego come primo segretario del cardinale Ascanio Colonna e che seguì in Spagna nel 1600.
Nel 1602, durante il secondo viaggio invernale a Valladolid, iniziò le Considerazioni sopra le “Rime”di Francesco Petrarca, un breve commento filologico e critico al Canzoniere e ai Trionfi. Lo spirito polemico e ironicamente dissacrante è giustificato dal Tassoni come il frutto di “stravagante stagione, siti strani e diversi, intempestiva opportunità, nuovi e bizzarri umori”.
In realtà, le Considerazioni (riprese e variate più volte), costituiscono la prima presa di posizione secentesca contro il dogmatismo aristotelico e il culto rinascimentale del Petrarca. Tra i difetti di questo poeta, Alessandro Tassoni indica proprio quell’audacia metaforica , cerebrale e fredda. Naturalmente il libretto non passò sotto silenzio. Alla pubblicazione avvenuta nel 1609. L’aspra critica fu iniziata da un giovane medico di Assisi, ma l’autore ravvisò in realtà la presenza di due filo petrarchisti, professori a Padova e a Ferrara. Tassoni si difenderà, e senza esclusione di colpi con due libelli Avvertimenti di Crescenzo Pepe e La tenda rossa, caratterizzati da un’aggressiva verve polemica.
Tornato definitivamente dalla Spagna visse a Roma dove prese la tonsura ecclesiastica (Rito sacro, ora abolito, che nella Chiesa indicava l’ingresso nello stato clericale, e consisteva nel tagliare cinque ciocche di capelli al tonsurando da parte del vescovo o di un suo delegato; con questo atto il tonsurato da laico diveniva chierico e acquistava tutti i diritti e doveri del nuovo stato [da vocab. Treccani]).
Non soddisfatto, andò in Piemonte ospite dei Savoia, che lo avevano invitato per i suoi scritti antispagnoli. Infine, deluso anche lì, tornò definitivamente nella Città Eterna.
Si ritirò a vita privata, si dedicò alle riunioni accademiche e allo studio indipendente.
Fu affiliato alla prestigiosa Accademia degli Umoristi dove conobbe anche G.B. Marino che, con Tasso, fu tra i più stimati poeti contemporanei.
In quegli anni scrisse La secchia rapita, un poema eroicomico ed è una caricatura del poema epico secentesco (dove molti autori dell’epoca imitavano la Gerusalemme Liberata del Tasso). Ma non solo. La satira investe anche la storia medievale municipale e, sotto le spoglie di podestà, guerrieri e guerriere, personaggi storici e dèi mitologici, mette in burla una serie di personalità cittadine (tra cui il suo nemico giurato A. Brusantini rappresentato dal personaggio il conte di Culagna) e di ambienti letterari e curiali conosciuti e facilmente individuabili. Pur tra difficoltà e traversie incontrate, il poema fu pubblicata a Parigi. Ebbe enorme successo e venne più volte stampato, tradotto e imitato nel corso del Sei- Settecento. L’Inquisizione non apprezzò e la mise all’Indice dei libri proibiti.
Grazie a questo successo, fu richiamato a Modena dal duca Francesco I, che gli attribuì una pensione. Morì nella sua città il 25 aprile 1635. Lasciò i suoi libri e i suoi scritti all’amico Fulvio Testi.
Ecco la breve trama del poema La secchia rapita.
I bolognesi entrano nel territorio di Modena, per depredarlo. I modenesi li inseguono fino a Bologna e ne riportano una secchia, accolta trionfalmente dai loro concittadini (canto I). Per riavere la secchia, scoppia la guerra tra le due città. In aiuto della ghibellina Modena, giungono re Enzo, figlio di Federico II e re di Sicilia, e gli dei dell’Olimpo Venere, Bacco e Marte. Parteggiano invece per i bolognesi Apollo e Minerva (canti II e III).
Dopo la vittoria di Castelfranco (canti IV-V), i modenesi sono abbandonati da Marte richiamato in Olimpo da Giove (canto VI), e vengono sconfitti in campo aperto dai bolognesi, che catturano re Enzo. La bella guerriera modenese Renoppia, tuttavia ottiene una rivincita (canto VII) e i bolognesi chiedono una tregua di dieci giorni, durante la quale è indetto un torneo: al vincitore sarà data in premio Renoppia (canto VIII). Un misterioso cavaliere sbaraglia tutti gli eroi, fatta eccezione del trepido conte di Culagna (canto IX). Solo al termine del duello si saprà che il cavaliere poteva essere vinto solo dal più grande codardo della terra. Schernito da tutti, il conte di Culagna non vuole rinunciare a Renoppia e confida a Titta, un guerriero romano, il proposito di uccidere la propria moglie. Messa sull’avviso dal romano, suo segreto amante la moglie fa sorbire al conte il veleno che era stato preparato per lei e si rifugia nella tenda di Titta, dove il marito, scampato al veleno, rivelatosi un potente purgante, la trova e, senza riconoscerla, la spinge tra le braccia del suo rivale (canto X), Imprigionato Titta, il conte lo sfida a duello, ma al primo colpo si crede spacciato. Titta crede davvero di averlo ucciso e manda a dire a tutti, rimanendo indispettito dal trovarlo sano e salvo (canto XI). Cessata la tregua si riprendono le ostilità, composte dal legato del Papa che riserba la secchia ai modenesi e re Enzo ai bolognesi (canto XII)
Ecco alcune strofe da La secchia rapita, canto II, 28-31
La fama in tanto al ciel battendo l’ali
con gli avisi d’Italia arrivò in corte,
ed al re Giove fe’ sapere i mali
che d’una Secchia era per trar la sorte.
Giove, che molto amico era a i mortali
e d’ogni danno lor si dolea forte,
fe’ sonar le campane del suo impero
e a consiglio chiamar gli Dei d’Omero.
29
Da le stalle del ciel subito fuori
i cocchi uscir sovra rotanti stelle,
e i muli da lettiga e i corridori
con ricche briglie e ricamate selle:
piú di cento livree di servidori
si videro apparir pompose e belle,
che con leggiadra mostra e con decoro
seguivano i padroni a concistoro.
30
Ma innanzi a tutti il Prencipe di Delo
sopra d’una carrozza da campagna
venía correndo e calpestando il cielo
con sei ginetti a scorza di castagna:
rosso il manto, e ‘l cappel di terziopelo
e al collo avea il toson del re di
e ventiquattro vaghe donzellette
correndo gli tenean dietro in scarpette.
31
Pallade sdegnosetta e fiera in volto
venía su una chinea di Bisignano,
succinta a mezza gamba, in un raccolto
abito mezzo greco e mezzo ispano:
parte il crine annodato e parte sciolto
portava, e ne la treccia a destra mano
un mazzo d’aironi a la bizzarra, e legata a l’arcion la scimitarra. ….