La storia di questo pianeta si sarebbe scritta con caratteri più lievi e sorridenti se l’Europa dei mercanti e dei navigatori non avesse varato, fra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI, la strategia della colonizzazione, che già all’epoca conteneva tutto ciò che serviva per la globalizzazione che sarebbe stata 5 secoli dopo.
La scoperta dell’America è ieraticamente rappresentata e riassunta in quella agghiacciante scena finale di Apocalypto dove i nemici di un mondo semplice e sanguinario – i guerrieri della civiltà centroamericana precolombiana e gli schiavi in fuga – si fermano, raggelati e improvvisamente solidali nello sguardo, di fronte alla visione della caravelle spagnole.
Quella scoperta dell’America che avrebbe introdotto nella cultura del vecchio continente il concetto che non si trattava più – come era stato anche nel punto di massima estensione dell’Impero Romano – di nuovi territori, nell’accumulo dei confini. Ma che si trattava del mondo. Dell’intero pianeta.
E che questo sia stato il momento di nascita del capitalismo, ovvero di un sistema economico fondato sulla rapina, sull’espropriazione originaria (l’accumulazione originaria), sulla ricerca dell’accumulazione infinita. Un sistema la cui storia coincide con la scomparsa progressiva dei bisogni dell’uomo, sostituiti inesorabilmente dalla primarietà delle merci e soprattutto del denaro-merce, equivalente generale di tutte le merci.
La lettura di Minima Mercatalia, di Diego Fusaro, impegnativo ma illuminante saggio sulla genesi del capitalismo, apre a scenari concettuali affascinanti, specie quando l’Autore descrive le tre fasi storiche in cui si è articolata la storia del capitalismo: quella iniziale dell’autoposizione, caratterizzata dalla necessità di costruire la dimensione dell’astratto, unica capace di garantire la negazione della sua storicità; quella intermedia della creazione della dialettica fra borghesia e proletariato; e infine – quella attuale – dell’assolutizzazione del suo mandato, che non ammette più alcuna dinamica interna e si sostanzia nella follia dell’infinito fianziario.
L’America – di cui un autore tempo fa ebbe a dire che era un paese destinato al comunismo – è quella dello psicopatico di Christian Bale nello struggente American Psycho di Mary Harmon, juppie di giorno e serial killer di notte. Il ritratto feroce e tenero insieme di un paese fondato sulla violenza.
Ma è anche il paese dei sognatori. E di quel David Crosby che negli anni 60 partecipò al trip generazionale che accese i profumi e gli aromi della stagione delle barricate. Dopo anni di autodistruzione, Crosby è tornato – galleggiante nella sua infinita dolcezza melodica – e ha sfornato bei dischi e belle reunion. L’ultimo lavoro, Croz, è un bagno nello struggimento di un autore che non rinuncerà mai alla sua nostalgia per un mondo migliore. Due gemme fra tutte: il brano iniziale, con un bell’intervento di Mark Knopfler; la raffinata song cesellata dalla tromba di Wynton Marsalis.
Meno male.