Le parole si perdono di vista. Si staccano dal loro senso proprio e interrompono il controllo di chi le usa. E’ così anche per la “comunicazione”, termine quanto mai abusato.
Comunicare è entrare in relazione attraverso un linguaggio, dei codici, dei segni condivisi. La relazione è lo spazio entro cui si comunica, che fonda una comunicazione, dandole dei confini, una finalità, le chiavi interpretative.
Si comunica fondamentalmente per far sapere che e ciò implica un qualche rapporto col mondo, una qualche verifica di corrispondenza allo stato delle cose che si comunicano. Ma si comunica anche (e in qualche caso soprattutto) per far fare qualcosa a qualcuno: è la dimensione pragmatica del linguaggio, potentemente rafforzata nella comunicazione pubblicitaria e in quella che sembra essere diventata una variante di quest’ultima, la comunicazione politica.
Quando la comunicazione politica era soprattutto incentrata sui contenuti ideologici (e, da quelli, programmatici) chi parlava in Tv, o nei comizi di piazza, o nei giornali (e sostanzialmente non vi erano grosse discrepanze fra le tante modalità comunicative) non rinunciava a far sapere che, pur non uscendo dalla natura retorica e pragmatica della sua funzione. Erano gli anni in cui i più grandi personaggi della scena politica non potevano dirsi – come si farebbe oggi – dei grandi comunicatori: Aldo Moro, Enrico Berlinguer…..
Oggi che la comunicazione politica, dopo venti anni di degenerazione televisiva e culturale, è soprattutto incentrata sulla presenza, sul qui e ora del dibattito, sulla forza dell’enunciazione che si divora la debolezza dell’enunciato, chi parla in TV (a parte Grillo, non a caso, il comizio di piazza è obsoleto) usa il linguaggio, i linguaggi, per sedurre, per estorcere, per manipolare. Per far fare!
So bene che chi ha l’ossessione della comunicazione replicherebbe che verità (nel senso relativo di rapporto con dei contenuti e della loro corrispondenza allo stato del mondo) e comunicazione non sono incompatibili. E direi che è senz’altro così. Ma aggiungerei anche che se fossimo costretti a scegliere fra l’una e l’altra cosa sceglieremmo di sicuro la prima. E che questa dovrebbe essere l’ipotesi regolativa (come dicono gli epistemologi) su cui chiunque abbia un compito intellettuale in questa società dovrebbe modellare il suo lavoro.
Noi italiani abbiamo la strana abitudine di indignarci quando qualcuno ci dice la verità. Al di là delle opportunità formali, di galateo diplomatico ed istituzionale, quanto detto dal rappresentante tedesco della SPD Steinbrueck non è poi così lontano dalla verità: un clown è un artista della comunicazione. Il suo compito non è quello di farci apprendere qualcosa. Solo quello di farci fare delle sonore risate.