Sembra che questi siano giorni in cui sia è morte a circondare la vita, e non viceversa.
Quattro giorni fa qualcuno si rallegrava dell’uccisione del dittatore libico Mu’Ammar Gheddafi.
E poi ieri tragedia durante il Gran Premio della Malesia, Marco Simoncelli muore in sella alla sua moto. Muore sulla sua stessa passione.
Qualche ora fa un terremoto ha poi sconvolto la Turchia provocando centinaia di vittime, un numero che con l’andare del tempo si gonfierà perché tanti sono i dispersi, e tanti i feriti gravi.
Ma in realtà con la morte si ha a che vedere tutti i giorni: in Africa un bambino muore in media ogni 10 secondi, e questo ha smesso di fare notizia tanto tempo fa. Le morti sul lavoro solo in Italia arrivano ad essere fino a tre da quando il sole sorge la mattina fino a quando tramonta. E quelle sulle strade? Non si riesce più a contarle.
Ogni giorno nel mondo è uno stillicidio di vite umane. Per un motivo o per un altro.
Nessuno qui vuole cadere nella retorica riproponendo per l’ennesima volte il tema della precarietà della vita. E’ ormai risaputo da molti: un attimo prima ci sei, l’attimo dopo non ci sei più.
E spesso non si ha modo di prevederlo, di schivare. Succede, e basta.
Questa è l’era in cui i social network sono come i primi cellulari vent’anni fa, e credo sia fondamentale parlare di quello che questo fenomeno, insieme ai media, hanno alimentato col tempo: la spettacolarizzazione della morte, il dolore che diventa intrattenimento.
Le più importanti testate giornalistiche italiane e del mondo non ci hanno pensato un attimo a mettere on line sui loro siti, video e foto di come Gheddafi è stato prima preso, picchiato e poi ammazzato brutalmente: “Attenzione. Queste immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità” avvertono qualche istante prima che si veda il viso di una persona coperta di sangue, il viso di una persona che sa di aver provocato dolore e che quindi immagina di non avere nessuna speranza di sopravvivere alla voglia di vendetta, alla rabbia di chi finalmente è riuscito a catturarlo.
Eppure la morte di un uomo talmente avido, fanatico, omicida ha provocato la felicità di molti. Nessuna compassione per il “diavolo”. Perché non avrebbe dovuto subire una fine atroce? Su Facebook si leggeva tra gli status appena aggiornati “Meglio morto che vivo uno come quello!”.
Ed è così che in attimo l’essere umano si innalza a giudice divino e sceglie che per un uomo che ha assassinato il suo popolo la giusta condanna è la morte: il peggiore dei castighi. Ma davvero è questa la peggiore delle punizioni?
Forse certe dinamiche non si possono comprendere, per noi che ci lamentiamo di essere sotto una velata dittatura di parlamentari strapagati e di Presidenti del Consiglio clown : e in fondo anche se è dura arrivare a fine mese finché abbiamo la pancia piena ci interessa poco se la Merkel e Sarcozy ci deridono davanti al mondo intero.
Ma poi gli stessi che si congratulavano con chi aveva barbaramente ucciso Gheddafi e magari aveva visto i video della sua esecuzione con birra e popcorn, qualche giorno dopo si è disperato per la morte di un giovane pieno di sogni che la pelle l’ha lasciata sull’asfalto di una gara di moto. Simoncelli però non era Gheddafi. Era giovane, buono, simpatico. Non doveva morire. Non così. Lui non lo meritava.
I fotogrammi dell’incidente si trovano su tutti i siti Internet, si vede esattamente il momento in cui finisce di vivere. Tutti lo possono vedere.
Giustamente i social network hanno riservato al centauro parole di stima e compianto: la sua foto è stata abbinata a due punti e parentesi aperte per indicare tristezza. Accanto una risposta a un ‘intervista di qualche tempo fa: “Ma non hai paura di morire in un incidente?” “Sinceramente, vivo più emozioni io in 5 minuti seduto sopra una moto del genere, di quante ne possano vivere diverse persone in una vita intera.” Ed in un attimo una risposta data di getto, diventa profezia.
E finisce così l’esistenza di uno che ha davvero vissuto “a tutto gas”.
Adesso, mi chiedo io, che in Turchia stanno morendo persone mentre questo pezzo viene scritto e mentre qualcuno lo sta leggendo, se qualcuno riuscisse ad avere la foto di qualche vittima la pubblicherebbe con accanto “due punti e parantesi aperta”? Io dico di no. O forse si. Ma solo perché dimostrarsi sensibili Facebook lo rende più facile.