BUIO E SENSO

 

E l’uomo sta solo al centro della terra

Trafitto da un raggio di sole

Ed  è subito sera

(S. Quasimodo)

 

Il buio intorno. Il buio siderale, freddo, implacabile. Nell’estensione infinita dell’universo, appena interrotta da uno scarto, da un fremito, una stella che collassa, l’esplosione di una galassia lontana.

Immaginiamo un punto in quello spazio eterno, impercorribile. Un punto fra i tanti infiniti possibili. Può essere il pianeta terra o qualunque altro dei tanti possibili.

Immaginiamo che in quel punto, totalmente circondato da buio e da freddo, immerso in un’assoluta mancanza di significato (dai linguisti abbiamo appreso che il significato c’è là dove c’è sostituzione, scambio, una cosa per un’altra…..), un pianista siede davanti al suo strumento e comincia a sfiorare i tasti e a produrre i primi suoni.

Nessuno intorno ascolta. Nessuno intorno ascolta. Non un respiro. Non una lacrima. Niente intorno. Un senso non c’è: non una chiave, non un’etica, solo solitudine.

Le note si raggrumano, si condensano – come gocce di vapore nell’aria – si organizzano. Si delinea un tragitto, una freccia nello spazio o forse una spirale. Una misera, umile linea che trafigge il buio e il freddo.

Il pianista parla a se stesso, attraverso le note del suo piano. E si racconta uno dei tanti infiniti mondi possibili. Ma adesso compare uno spiraglio di luce, che si concentra sulle sue mani, che scivolano sui tasti e compongono un linguaggio. E le sue orecchie sono raggiunte dalla tristezza, dalla malinconia, ma anche dalla tenerezza, dalla gioia, dalla dolcezza di quella melodia.

In un’altra parte dell’universo, forse vicino al pianista, c’è qualcuno che vive, immerso nella tristezza, e nella malinconia, e nella tenerezza, e nella dolcezza. Ma non lo sa. Non sa quale senso abbia provare quello che prova. Ha solo una possibilità: essere raggiunto da quei suoni e ricevere da essi il battesimo del senso. Per  una manciata di minuti qualcuno raggiunge l’unico senso possibile per l’uomo: parlare con se stesso e consistere in questo, trovare un senso alla propria esistenza solo potendola raccontare.

 

Il film che meglio rappresenta la condizione universale del genere umano, in quella densa e materica nube di freddo, è molto probabilmente The road, di John Hilcoat, con un grande Viggo Mortensen a trascinarsi nel buio e nel gelo di un mondo senza speranza e senza futuro. Completamente privo di senso.

Un padre e un figlio, che spingono il loro carrello della spesa ricolmo di cose utili a sfamarli ma anche a tenere in vita il ricordo dei tempi pieni, luminosi, non a caso rappresentati soprattutto dalla sequenza del concerto. E l’amore fra di loro, disperato assoluto feroce, che li tiene in vita più delle poche cose commestibili che riescono a racimolare, mentre percorrono lande desolate e incrociano altri pochi feroci umani a caccia di carne umana.

Un grande ritratto dell’umanità del grande Cormack McCarthy, dal cui romanzo è tratto il film.

(La strada, Einaudi)