CARTOLINA DA ULUWATU

Nelle prime soste a Bali avevo cercato, senza riuscirci, di visitare Uluwatu, il tempio a guardia dei demoni provenienti dal mare. Tenni una sua cartolina perché più di altre mi attiravano la piccola costruzione al limite del promontorio che pareva spiccare il volo verso l’alto, la scogliera altissima, il mare viola e la schiuma che lambiva la battigia di lastroni di pietra. Tante cartoline spedii, ma non quella. Quel paesaggio era indimenticabile, fuori dal comune come Bali è spesso. Subito ebbi un vago richiamo artistico: un certo parallelismo fra un paesaggio descritto da Vincent van Gogh e Uluwatu. Infatti, ricordavo che in una delle lettere dell’artista al fratello Theo il pittore raccontava così minuziosamente un luogo di mare da farmi immaginare forme e colori della costa, della vegetazione, della stradina che portava alla spiaggia, e il sole all’orizzonte e la luce a fior d’acqua. L’occhio dell’artista sublimava un angolo di Francia rendendolo unico. Ecco, era così che già “sentivo” Uluwatu: speciale!

Oggi il tempo di visitare Uluwatu è giunto. Il percorso d’andata, a sud dell’isola, attraversa un paesaggio ricco di vegetazione, rigogliosa e curata, e ha una sua dignità di luogo, preparando all’avvicinamento con leggerezza. All’arrivo, Uluwatu è battuta da un forte vento. Sento dentro la poesia semplice e incantatrice che pensavo! C’è umidità bassa sul mare. La nebbia bianca nasconde agli occhi l’orizzonte lontano, avvicina e accorcia la distesa dell’acqua. Raccoglie il moto ondoso dentro l’insenatura tra le alte scogliere a picco sul mare. Poi, con fragile e improvvisa dissolvenza, si alza e si ritira. Allarga verso l’alto lo spazio e la luce diventa ampia, totale. Il mare di color ottanio compatto si fa cobalto trasparente e laggiù, al largo, è mosso a onde come una strada ondulata, e non mostra spuma. L’acqua è danza pura che si frena chiara sugli scogli e sulla spiaggia di pietra limata. E qui sì, le ragnatele di schiuma, irregolari e fitte, sembrano pizzo e fanno da bordura al flusso che avanza, si stendono e ritornano al mare, frusciando come carta crespa. Lo sguardo sale, dall’insenatura sabbiosa laggiù, alla scogliera imponente di roccia chiara con i ciuffi verdi di vegetazione, quassù. Sulla cima: la visione della recinzione regolare e i tetti dei piccoli templi e dei balè. Vivo in quest’aria, inebriante per l’altezza vertiginosa, e per il cielo terso che mai come adesso, dopo il broncio momentaneo, è celeste intenso. Sono rapita come dentro un cerchio magico nello snodarsi lineare a filo dello strapiombo e della meta ultima: l’insieme delle costruzioni sacre. Fuori dal mondo, in un posto “altro”, dove è l’anima a respirare e ascoltarsi.

Più in là, lungo il sentiero da percorrere per ritornare alle auto, le scimmie, accoccolate su muretti o sostegni di pietra, aspettano che qualche turista doni loro una banana, o il diversivo di un paio di occhiali o una busta di plastica da arraffare maldestramente in velocità. E verso sera, per intrattenere i turisti, sono rappresentate danze tradizionali, come il Kecak. Questa danza è caratterizzata dalla presenza di una moltitudine di uomini a torso nudo, seduti a terra, posti in cerchi concentrici, che ondeggiano e protendono braccia e mani verso l’unico personaggio centrale femminile danzante che rappresenta dewi Sita. La storia, tratta da un poema epico indù, racconta che Ramayana Rama, il marito, cerca di liberare Sita, sua moglie, rapita dal re di Lanka. Con l’aiuto dell’esercito di scimmie, la libererà vincendo contro il Male. Il coro di voci- Kecak suara– è l’unico accompagnamento “sonoro”; riesce a trasmettere la drammaticità, con i soli versi vocali che ripetono in crescendo “kecakecakacack”…                                                                             

Pura = tempio; 

Ramayana Rama = è un vanara(spirito dall’aspetto di scimmia);

Kecak =  suono onomatopeico.