Questo poeta nasce il 6 gennaio 1885 a Milano da famiglia ligure. Nella città natale studia alla facoltà di lettere. È compagno e amico intimo del filosofo Antonio Banfi e di altri futuri letterati. Insegna poi nelle scuole tecniche serali (a Milano, Treviglio, Novara e Como), iniziando anche a collaborare a diverse riviste, tra cui La Voce.
In guerra è ufficiale di fanteria in val d’Astico e poi sull’Isonzo, al Podgora, ma questa esperienza viene troncata di colpo per una crisi nervosa (dicembre 1915), che lascia forti tracce, oltre che nella sua biografia, anche nelle carte del poeta e anche tra le splendide lettere agli amici.
Nel dopoguerra riprende l’insegnamento ma solo in forma privata, il suo tormento esistenziale e spirituale lo induce (1929) ad aderire attivamente al cattolicesimo al punto che entra nell’ordine rosminiano di Domodossola.
Viene ordinato sacerdote nel 1936 e vive tra Domodossola e Stresa fino alla morte avvenuta il I novembre 1957.
Nel 1913, per le edizioni de La Voce, escono le prime poesie di Rebora col titolo di Frammenti lirici e nove anni dopo Canti anonimi , (con l’ed. del Convegno).
Attivo e importante il lavoro di traduttore di narratori russi (Gogol. Tolstoj, ecc.)
Dopo la conversione si dedica esclusivamente alla poesia religiosa tra questi: Canti dell’infermità del 1956.
Materia di indagine poetica di Clemente Rebora è una travagliata introspezione, dominata dall’assillo di difendere e rigenerare l’individuo nella collettività e di instaurare una vitale comunicazione cosmica.
Il suo stile è molto ardito e inventivo, dominato dallo scontro tra astratto e concreto: lo scandaglio etico e rigoroso e spregiudicato trova rispondenza in uno stie arduo, difficile, dove il realismo anche più crudo viene utilizzato come metafora e analogia per chiarire o rappresentare concetti astratti [Martignoni e Segre].
Negli anni della Grande Guerra diviene centrale l’ossessione di svelarne le atrocità sia in prose che in poesie raccolte poi in volume, postume.
Ho scelto questo autore per ricordare il Centenario della I Guerra Mondiale.
E ora una poesia pubblicata nel 1917:
Voce di vedetta morta
C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Sòffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò ch’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.
di Adelina Valcanover