COSA FATTA CAPO (NON) HA. I “LIBERI CONSORZI DI COMUNI” TRA INNOVAZIONI ISTITUZIONALE E IRONIE DELLA POLITICA

Ho già detto, in un articolo apparso qualche giorno fa su Ragusa Oggi, che è molto facile dedicarsi allo sport (nazionale) di criticare per partito preso una riforma. La sindrome è nota e classificata come “retorica della reazione”. Prendo atto, quindi, del varo della nuova legge regionale sull’ente intermedio, approvata dall’Ars martedì scorso con 62 voti favorevoli e 14 contrari. Così come del fatto che la formulazione di una legge di questo tipo è oggettivamente complessa, anche perché valutazioni tecniche si sommano a vincoli politici e, quindi, non c’è da sorprendersi, per esempio, se la materia delle Città metropolitane – Palermo, Catania e Messina previste già dal 1986 come “aree metropolitane” – richiede ulteriori provvedimenti normativi (se poi siete curiosi basta digitare su google “città metropolitane Sicilia” per trovare dati interessanti che lasciano qualche dubbio sull’inclusione di Messina; ma, com’è noto, l’includere o l’escludere, in qualunque tipo di elenco ufficiale, è attività squisitamente politica, di rapporti di forza, di capacità di pressione, di convenienza) e lo stesso vale per la definizione delle funzioni dei cosiddetti (o meglio ridetti) “liberi consorzi di comuni”. Prendo anche atto che al momento e almeno fino all’autunno inoltrato la gestione dell’entità amministrativa che si aggira per la Sicilia non potrà che essere commissariale. Il che, ancora una volta, non è una scelta neutra come vorrebbe una lettura di comodo dell’istituto del Commissario regionale ma politica. Attendiamo quindi criticamente nella convinzione che, in una riforma, la legge è il sasso che penetra nello stagno, mentre le norme e i regolamenti di applicazione così come i processi organizzativi che si attivano, sono i cerchi concentrici che da quel punto si diramano, cioè sono le conseguenze. A queste dovremmo guardare per una valutazione realistica.   

Mentre attendiamo il nostro Godot, per dirla con il drammaturgo Samuel Beckett, mi limiterei a segnalare un paradosso (del linguaggio amministrativo), più avanti invece richiamerò alcuni problemi politici. Il primo (il paradosso linguistico) ha un effetto comico. L’altro ieri (10 marzo) abbiamo abolito o nella dizione di Cacrolici abbiamo superato le “province regionali” sostituendole con i “Liberi consorzi di comuni”, siamo così ritornati allo Statuto del 1946. Tuttavia, molti non si sono accorti che l’art. 3 della legge ragionale n. 9 del 6 marzo 1986 che istitutiva la “Provincia regionale” prevedeva senza mezzi termini che “L’amministrazione locale territoriale nella Regione siciliana è articolata, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto regionale, in comuni e liberi consorzi di comuni denominati province regionali”. Ne consegue che l’altro ieri il legislatore regionale nella sua onniscienza abolendo le province regionali ha abolito (o superato) i “liberi consorzi di comuni” per sostituirli con dei nuovi “liberi consorzi dei comuni” (sic !).  Nulla di nuovo sotto il sole? Da questo punto di vista, lo ripeto, non c’è nulla di nuovo. Del resto, le nuove (o vecchie) strutture consortili mantengono, i perimetri (almeno per i prossimi sei mesi), il personale con i relativi diritti acquisti e le legittime attese di carriera, le strutture e le risorse, finanche il riferimento sostanziale alle “funzioni di programmazione, di indirizzo e di coordinamento”.

Le ragioni di una riforma strutturale del livello intermedio di governo siciliano, invece, sono reali e vanno prese sul serio. Ne indico tre, partendo dall’amministrazione-ente per arrivare all’amministrazione-territorio. Primo, non è stato mai chiarito una volta per tutte l’equilibrio tra funzioni di amministrazione diretta (edilizia scolastica, viabilità, ecologia, ecc.) e di programmazione o di indirizzo-controllo dell’ente provincia; per di più tradizionalmente la crescita del personale (numerica e per ruoli) e delle consulenze o innesti di competenze esterne non ha sempre corrisposto alle funzioni da svolgere effettivamente. Si sa, è storia arcinota, l’auto-amministrazione prevale (tanto più in Sicilia) sulla prestazione di servizi.  Secondo, lo spazio del meso-governo, cioè il livello intermedio tra comuni e regioni e/o stato, è andato sempre di più complicandosi e affollandosi (consorzi comunali e regionali, enti funzionali, autorità di ambito ex Ato, ecc.) ciò crea un problema di coordinamento inter-istituzionale, ma soprattutto la necessità di ricondurre a un’amministrazione efficiente ed efficace la gestione di politiche che affrontano problemi sovra-comunali (a partire dai rifiuti, dalle criticità ecologiche, dal bene comune acqua, dalle politiche di sviluppo). Perché non si parte mai dai problemi e dalle funzioni, piuttosto che dalle elezioni-nomine (dirette o indirette), quando si configurano le istituzioni pubbliche? Terzo, c’è la giusta necessità di dare rappresentatività ai territori e di bilanciare i rapporti di dipendenza tra città del sistema urbano provinciale. Non sarà sfuggito, per esempio, che con l’elezione diretta del presidente della Provincia (1996) nel nostro territorio il presidente è stato sempre espressione del collegio della città capoluogo (il fatto che sia stato anche sempre del centro-destra qui è meno rilevante). Il punto è che le regole maggioritarie non favoriscono la rappresentatività né degli interessi, né di genere, né tanto meno dei territori, da qui l’esigenza di trovare canali di rappresentanza più ricettivi anche per evitare tensioni latenti.       

Fin qui il paradosso e le criticità amministrative. Veniamo adesso al nuovo, che va cercato anzitutto negli assetti  istituzionali dei liberi consorzi dei comuni. Questi, infatti, sono diventati organismi di rappresentanza e, quindi, di elezione indiretta o di secondo grado, cioè (l’assemblea consortile, il presidente e la giunta) sono eletti, non più direttamente dai cittadini, ma dai rappresentanti dei comuni afferenti al consorzio. La primazia della Sicilia, se c’è, sta in questo e non è certo poco. Per la prima volta nella storia repubblicana si pone un limite importante e fortemente simbolico alle spinte autoreferenziali alla moltiplicazione delle cariche politiche elettive e forse anche ai costi della politica (anche se sul punto il discorso è molto più complesso e al momento anche per i consorzi comunali siamo solo alla punta dell’iceberg). Per la prima volta la coazione partitocratica trova un ostacolo alla sua inerzia di moto. Certo può suscitare qualche ironia il fatto che la maggioranza di Crocetta, M5S compreso, converge sulle indicazioni che Draghi e Trichet, nelle ultime tre righe della loro lettera del settembre 2011, davano a un governo Berlusconi già in crisi di eliminare le province.

A parte l’ironia della politica, che vale per quel che vale, non va dimenticato che in Europa il livello intermedio (o provinciale) è quasi ovunque presente se si escludono casi veramente eccezionali (Lussemburgo e Slovenia), mentre sulla nomina degli organismi di indirizzo il ricorso alla rappresentanza di secondo grado è piuttosto diffuso. Ci dovremmo però chiedere qual è il senso di attribuire la conduzione delle nuove strutture consortili ai sindaci, già sovraccaricati per la gestione delle loro città. Il che o richiederà il ricorso alla delega (ma allora perché non prevedere fin da subito la nomina, affidata ai comuni, di nuovo personale?), ovvero il trasferimento di fatto della decisione ai dirigenti consortili (in questo caso però il controllo degli elettore scompare del tutto). Certo introdurre delle nomine significa prevedere costi per qualche tipo di indennizzo, anche minimo, mentre per i sindaci (o assessori) si poteva far ricorso all’escamotage dell’incarico extra “a titolo gratuito”. Anche questo è un tema oramai intriso di un’esasperata retorica populista che non posso, né ho voglia, di affrontare qui. Segnalo solo un’altra ironia della politica: i casi di corruttela più clamorosi alla ribalta sui media in questi giorni non hanno a che fare con gli indennizzi equi (non parlo di quelli smodati perché sono tutt’altra faccenda) ma con i rimborsi spese fittizi, anomali, eccessivi (fatta la legge gabbato lo santo). Ancora una volta, dunque, un conto è la riforma un altro è diverso conto è la reale innovazione istituzionale e amministrativa. Dovremmo cominciare a interrogarci non solo su ciò che segue le riforme (gli effetti a valle), ma su ciò che le precede (i processi a monte) e allora scopriremmo che le riforme dettate dall’agenda dell’emozione pubblica e dell’antipolitica sono utili per attivare decisioni ma pessime per mettere in opera le politiche, il loro ciclo di vita richiede molta intelligenza politica. Forse tutto diventa più chiaro se ci interroghiamo sulle intenzioni reali di una riforma.

        * Università della Calabria