Crisi è una parola che viene dal greco antico. Nelle lingue moderne indica una fase particolare di un percorso o di un processo, caratterizzata da un mutamento che alla fine può rivelarsi in meglio o in peggio. Si parla per esempio di crisi di una malattia a proposito del momento in cui i sintomi si modificano e con essi l’andamento della malattia stessa. Ma la parola è usata in un numero infinito di campi: si parla di crisi economica, ma anche di crisi politica, energetica, religiosa, culturale e così via.
L’economia mondiale è periodicamente percorsa da crisi. In campo economico la parola crisi definisce in genere un calo dell’attività economica, con un passaggio da una fase di espansione e di crescita a una fase di depressione. Secondo alcuni studiosi (soprattutto di ispirazione marxista), le crisi economiche che si manifestano periodicamente sono la logica, ineluttabile conseguenza del modo in cui è organizzato e funziona il sistema capitalistico, affermatosi in Europa e poi nel resto del mondo a partire dal XVIII secolo. Altri preferiscono invece analizzare di volta in volta le ragioni particolari del loro manifestarsi; altri ancora si spingono fino a sostenere che, sia pure in forme diverse, il sistema capitalista non sia un fenomeno moderno, nato con la rivoluzione industriale, ma molto antico.
Le crisi nascono normalmente in un paese (in generale, in un paese importante) o in una regione più o meno vasta. Da qui, molto spesso, si estendono a buona parte del mondo. Questa larga diffusione delle crisi è accentuata, in epoca contemporanea, dalla globalizzazione, che rende gli stati e le varie parti del mondo fortemente interdipendenti. Possiamo fare un esempio che non è di fantasia ma è molto reale proprio oggi. Si può dare il caso di un’economia stazionaria, o che cresce assai poco (un’economia in crisi), come è quella della maggior parte dei paesi europei e, invece, un’economia in rapida crescita (dall’8 al 10% ogni anno), come è in questi anni l’economia cinese. Se i paesi europei sono in crisi, compreranno meno beni prodotti in Cina, e le fabbriche cinesi dovranno cercarsi nuovi mercati e non sempre riusciranno a trovarli, essendo quindi costrette a chiudere o a ridurre i prezzi fino al punto di renderli non convenienti. Gli investitori francesi o inglesi o italiani avranno a disposizione meno capitali da investire in attività economiche (per esempio nell’apertura di nuove fabbriche) in Cina. Potremmo continuare con altri esempi, ma già questi sono sufficienti a capire come una crisi europea possa preoccupare anche un paese in ascesa economica come la Cina.
Attualmente l’epicentro di una nuova crisi economica è l’Europa, anche se le prime avvisaglie di questa crisi si sono verificate negli Stati Uniti nel 2007-08. Ma mentre negli Stati Uniti c’è stato un avvio di ripresa, la situazione dell’Europa si è aggravata negli anni successivi.
Il dibattito sulla austerità in Europa si è concentrato esclusivamente sui deficit di bilancio e di debito pubblico in percentuale del PIL. Secondo il Trattato di Maastricht i paesi che aderiscono all’Unione europea devono rispettare determinati vincoli: deficit di bilancio non superiore al 3 per cento del PIL e livelli di debito non superiori al 60 per cento. Gli stessi paletti esistono per i paesi già membri. La maggior parte di loro (con l’eccezione della Germania, tra i paesi più grandi) non riescono a soddisfare questi criteri. Uno degli argomenti del dibattito in corso riguarda la possibilità di concedere una dilazione per raggiungere questi obiettivi (la Francia è appena riuscita a ottenerla).
In tutte queste discussioni, i soli dati presentati come prova del fatto che siano state attuate misure di austerità, consistono in statistiche comprovanti deficit in calo. In effetti è stato così, come si vede dai più recenti dati Eurostat (Figura 1) [1]. Il livello medio di deficit in percentuale del PIL nei paesi dell’UE nel 2012 è molto più basso (4 %) di quanto fosse nel 2009 (6,9 %).
Per gli austriaci, la recessione è, in realtà, la cura per eliminare le distorsioni accumulate durante il boom. Le risorse sprecate in usi improduttivi devono essere liberate e trasferite verso settori sostenuti da una domanda reale. Purtroppo, questo richiede tempo e alcune risorse resteranno inattive finché gli imprenditori troveranno il modo migliore per utilizzarle. Questo significa che, temporaneamente, ci saranno tassi più elevati di disoccupazione, fabbriche chiuse o utilizzate a metà in attesa di riorganizzazione e risorse finanziarie parcheggiate in investimenti a breve termine anziché in progetti a lungo termine.
I governi di quasi tutti i paesi dell’Unione europea hanno quindi le stesse dimensioni della situazione pre crisi o addirittura maggiori.
Se definiamo “austerità” le misure adottate per ridurre il deficit di bilancio, allora, in questo senso, l’”austerità” è responsabile della crisi. Se, tuttavia, la definiamo correttamente come “insieme di politiche che producono una riduzione delle dimensioni del governo”, allora queste politiche non possono essere ritenuti responsabili della crisi europea, perché non sono mai state applicate.
Purtroppo, la confusione sul significato di “austerità” impedisce una migliore comprensione della situazione e un dibattito più serio sulle cause della crisi.
L’Europa ha bisogno di governi più piccoli, non solo in termini di spesa pubblica, ma anche per quanto riguarda la deregolamentazione del mercato del lavoro e altre riforme strutturali per incoraggiare l’imprenditorialità, gli investimenti privati e la creazione di posti di lavoro. Ci sarà crescita sostenuta in Europa solo quando i governi, e non i cittadini o le imprese, sopporteranno il peso della austerità.
La crisi di questi anni ha anche fatto esplodere una discussione che già esisteva sulla mancanza di una comune politica europea. Si era sottolineata più volte questa mancanza nei campi della politica estera, della difesa, della sicurezza. Di fronte alla crisi il tema principale è diventato quello della direzione dell’economia, vale a dire della mancata elaborazione di regole comuni a tutti i paesi dell’Unione. Da qui, la fragilità di una moneta comune non accompagnata da passi adeguati in direzione di un’unità anche economica più generale ma soprattutto politica.
Un tema su cui le discussioni si sono fatte più vivaci e accese nel 2010-2011 è quello di quanto le economie più ricche, come quella tedesca, debbano impegnarsi in aiuto delle economie in pericolo. Si sostiene da alcuni che le economie in pericolo lo sono perché i loro governi non hanno saputo controllare la spesa pubblica e, in generale, guidare oculatamente l’economia. Questo richiederebbe l’introduzione di regole più precise e di un controllo dall’alto. Ma anche su questo si discute, perché una parte del mondo politico di vari paesi si oppone a quella che appare come una cessione sia pure parziale dell’autonomia decisionale di un paese al vertice europeo (oltretutto, a un vertice che ancora non esiste, o quanto meno non nel pieno delle sue funzioni). Molti economisti, comunque, sottolineano come il salvataggio dell’euro (che non è mai stato tanto pericolante come in questa crisi) sia interesse anche dei paesi ricchi dell’Unione.
I paesi (governi e opinioni pubbliche) più gelosi della propria autonomia e contrari a una cessione di poteri non vedono di buon occhio il fatto che Germania e Francia mirino a imporre se stesse come una sorta di consolato, di informale governo a due di una Unione Europea che non riesce a darsene uno più ufficiale, e sufficientemente efficace.
Abbassare il costo del denaro è uno strumento efficace, ma non sarà sufficiente per fare ripartire i consumi e riaccendere l’economia nel suo insieme poiché siamo già scivolati troppo in basso ed occorre a questo punto trovare una leva monetaria più consistente e più ampia. La sopravvivenza dell’Euro è ormai legata ad un inevitabile riallineamento ai suoi fondamentali. Ripercorrere l’esperienza dei trattati di Bretton Woods per esempio potrebbe essere, a mio avviso, una via per cercare un nuovo “Peg” ovvero un elemento o fondamentale economico reale e solido da cui far leva al fine di garantire al titolo di credito la credibilità e la solidità necessarie per ripristinarne la sua fiducia. Una sorta di “Nuovo Euro” ricalcolato su quello che l’economia europea concreta può dare oggi. Un modello ritarato sul gettito reale, dal quale ripartire e da dove si potrà crescere, anteponendolo all’attuale modello che è invece artificiosamente sopravvalutato ed inadeguato a qualsiasi “stress”. Se lo guardiamo sotto un profilo grafico più realistico uscendo per un attimo dal regime cartesiano dei cambi nel tempo con altre valute, se lo rapportiamo cioè a fondamentali macroeconomici come: Fiducia dei consumatori, Tasso di disoccupazione, Vendita beni durevoli, notiamo che la moneta dell’ euro zona segue pedestremente ed inevitabilmente l’andamento dei suoi fondamentali che disegnano curve chiuse, ovvero isteresi.
Come andrà a finire?