La tragedia dei popoli sudamericani, consumata nei secoli segnati dal dominio di un imperialismo feroce quanto ottuso, è anche quella dei desaparecidos argentini e degli stadi cileni trasformati in campi di concentramento. Processi di una violenza portata fino al cuore dell’anima occidentale, al solo scopo di affermare l’irriducibilità di un’idea di mondo organizzato intorno alla sopraffazione e allo spregio per i più elementari diritti di cittadinanza. Il tutto davanti agli occhi un poco ipocriti e un poco sgomenti dell’Europa, che nello stesso volgere del tempo assaggiava la morsa politica delle sue strategie della tensione, dei suoi blocchi sociali, del suo terrorismo e delle sue piccole grandi dittature (quella dei colonnelli in Grecia, per fare un esempio).
Le storie laceranti della stagione degli orrori in Argentina sono quelle raccontate, con una tensione emotiva che in alcune sequenze raggiunge livelli insostenibili, da Garage Olimpo, di Marco Bechis. Il film, che fu presentato nella sezione un certain regard del festival di Cannes del 1999, mette in scena l’apparente discrasia fra l’enormità degli effetti civili e sociali e l’assoluta “normalità” del male che generò quegli effetti. Un male respirato, metabolizzato da individui grigi, mediocri, soliti, i quali però ebbero dai regimi militari che insanguinarono quei paesi l’occasione per emergere dalla nebbiosa inconsistenza delle loro vite.
L’America ricca e opulenta del Nord seguiva con studiato disinteresse le vicende dei popoli vicini, mimando falsi conati di rifiuto per tanto spregio dei diritti umani. E tuttavia era (ed è) capace di esprimere anche un reale processo di commossa partecipazione, negli spiriti liberi, fra gli artisti e gli intellettuali. Fra questi un posto spetta a Charlie Haden, che già al termine degli anni ’60 si era distinto per le sue posizioni vicine alla cultura rivoluzionaria, partorendo quel manifesto dell’arte militante che è la Liberation Music Orchestra. L’opera che però meglio esprime la mirabile sintesi fra ardente passione popolare e complesse strutture musicali, fra nostalgia del canto e rabbioso voicing metropolitano, fra musiche basse dell’America India e il free afro-americano (che si stava proponendo sempre di più come linguaggio dell’emancipazione intellettuale dei neri d’America) è The Ballad of the Fallen, che ha più di un momento di struggente bellezza, specie a ridosso di quei punti di tensione in cui appunto il canto melodico della tradizione popolare sudamericana si sfrangia e si attorciglia nelle frasi atonali, rabbiose della musica improvvisata.
Il realismo magico è la cifra distintiva della scrittura, potente e immaginifica, di Gabriel Garcia Marquez. Ne L’autunno del patriarca il grande scrittore tesse le sue intricate, amare, sensuali trame narrative per raccontare la solitudine cui è condannato il dittatore di uno stato immaginario, facilmente riconducibile al Cile di quegli anni. Quanto di più potente la parola abbia mai prodotto nel guazzabuglio delle cose umane.