La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola
Il mio cane è fimminaro. Assai. E ieri è scappato di casa. Per sette interminabili ore. Sette anni in Tibet. In cerca di ventura. Senza dire niente. Io capisco l’ormone. Capisco la curiosity. Ma manco un tinto WhatsApp! Tipo: “Torno a una certa. Non vi si agiti.”
“Ok, stai attento. Ti lascio la cena davanti alla porta sul retro.”
No. Totalmente per i catsy suoi. Ma che ti manca qui? Sei il sovrano di un giardinazzo assieme a cinque gatti di corte. Masterchef e coccole a iosa. Ma che cerchi?
Ho girato in lungo e in largo per ore da Cisternazzi al Reno. Niente. Ho scritto anche sui gruppi del catechismo. Sul Corriere della Sera online (cronaca di Malavita). Niente. Sono rimasto financo sveglio davanti alla TV fino a tardi (le 21.15). Ad un tratto Michele Santoro, mentre affrontava la questione mediorientale, mi ha guardato e mi ha urlato contro: “Ma vuoi aprire?! Il cane bussa da mezz’ora!”
Era lui, scodinzolo, l’ottavo nano. Lurdo come Peppa Pig versione country wild. In the rain. E che rain! Non sono riuscito a rimproverarlo. Ma l’ho punito severamente. Con una cofana di croccantini. E non ho inteso violare il suo pudore: non gli ho chiesto come fosse andata la serata. Era contento di vedermi. Forse.
Qui, in Sicilia, anche le creature più fituse a volte ritornano. E, come diceva Kalhil Gibran, essi non sono tuoi, sono come dardi che a un certo punto devi scagliare lontano, lasciandoli liberi nel mondo.
Vero Kalhil, non sono tuoi, sono miei. E se non tornano, i dardi io te li scaglio contro. Perché in Sicilia noi non siamo affatto possessivi. Siamo amorosivi.