…E ORA LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE!

E’ oramai una raffigurazione plastica consolidata quella di Renzi che cammina su un filo sospeso in aria e che per mantenere l’equilibrio è obbligato a muoversi celermente nonostante l’incombenza costante del pericolo di cadere …

L’approssimarsi dell’appuntamento elettorale amplifica enormemente questa situazione al punto che nonostante ad appena 2 mesi dall’insediamento questo esecutivo abbia prodotto: a)una riforma elettorale già passata da una Camera, b)un progetto di revisione costituzionale in avanzato stato di discussione in commissione con modifica del Senato, eliminazione del bicameralismo perfetto, rivisitazione della ripartizione delle competenze degli enti locali, c)una redistribuzione di reddito senza precedenti in favore dei redditi da lavoro medio/bassi, d)uno spostamento di imposizione fiscale dalla produzione (meno 10% IRAP) alla rendita finanziaria (più 6% capital gain), e)la desecretazione più vasta della storia repubblicana, f)un decreto per modificare gli effetti distorsivi della legge Fornero, g)avallato la proposta di SEL per debellare l’istituto delle dimissioni firmate in bianco soprattutto dalle lavoratrici etc. etc., tutto viene considerato o insufficiente, o pleonastico, o frutto di furbizia, o vuota declamazione e chi più ne ha più ne metta …

Renzi comunque sa che non può fermarsi, ed allora ecco calendarizzare per il 9 maggio un incontro tra Governo, INPS e Commissioni Lavoro delle due Camere per dare soluzione definitiva all’annoso (e scandaloso) problema degli esodati, ma soprattutto ad incardinare entro la prima decade di giugno la riforma della Pubblica Amministrazione!

Personalmente penso che questa sia la riforma più necessaria per il nostro Paese perché ha una duplicità di implicazioni entrambe importantissime: la prima culturale, la seconda economica.

Partiamo da quella economica: un Paese come il nostro non si può permettere una Pubblica Amministrazione così “pesante” (si parla di oltre 3 milioni di addetti per un impegno superiore al 10% del PIL) e così inefficiente (secondo uno studio della CGIA di Mestre, nei rapporti con le imprese, siamo al 15° posto su 17 in area Euro e al 65° posto nella classifica mondiale!).

Ovviamente le stime e le statistiche lasciano il tempo che trovano (sempre la CGIA di Mestre stima in 31 miliardi l’anno l’aggravio per le imprese), ma è abbastanza evidente che in Italia la burocrazia costituisce un elemento di rallentamento del circuito economico e spesso di conseguenza un “elemento di costo” suppletivo per le imprese.

Peraltro nel nostro Paese dalle famose “leggi Bassanini” in poi nessuna seria riforma ha innovato il campo (eccezion fatta per la famigerata normativa Brunetta sulle assenze per malattia che hanno finito per penalizzare i malati “veri”); parliamo di circa 20 anni fa … e in questi venti anni qualche innovazione le organizzazioni in generali le hanno conosciute, non fosse altro che per qualche “piccolo e trascurabile” elemento di progresso tecnologico!

Dal punto di vista culturale la nostra Amministrazione Pubblica, ma dico di più il nostro Paese nella sua interezza ha necessità di fare grandi passi avanti in termini di consapevolezza sociale e di etica del dovere, e una realtà che ha come interlocutori diretti 3 milioni e trecentomila persone e interlocutori indiretti praticamente tutto il Paese costituisce una formidabile occasione di un ripensamento del nostro modo di essere comunità nazionale.

Volendo essere più espliciti abbiamo bisogno, come comunità nazionale, di consapevolizzare in modo pieno che “pubblico dipendente” significa che la collettività paga la “giusta mercede” ( e contrariamente a quanto accade spesso per i dipendenti “non pubblici” sia il compenso che le garanzie sono “reali”) per un lavoro che deve “servire” alla comunità.

Il problema infatti non è la numerosità ne il costo economico della pubblica amministrazione, ma che essa ridiventi efficiente e utile alla comunità.

In questo campo c’è da ripensare e reinventare il ruolo dei dirigenti che troppo spesso rispondono “solo formalmente” dei risultati della struttura che dirigono, e a fronte di questo c’è da rivisitare anche il problema della “valutazione” dei dirigenti e del loro potere di “valutare” le risorse loro affidate. Ancora oggi in alcuni uffici ministeriali la (purtroppo ancora minima e trascurabile) parte variabile del reddito (premio di produttività o similari) viene distribuita “in base alla presenze” senza alcuna valutazione della qualità della prestazione lavorativa e questo con un accordo reciproco di deresponsabilizzazione sia dei dirigenti che dei sindacati.

Ribadisco che costituisce un’occasione di crescita culturale perché mettere sotto i riflettori il problema DEVE indurre a ripensare anche il ruolo delle relazioni sindacali nel campo del pubblico impiego, soprattutto per quanto riguarda i grandi sindacati confederali: in questo ambito infatti un sindacato non corporativo non può e non deve eludere il proprio ruolo di portatore di interessi collettivi e non solo di tutela di diritti individuali o di categoria.

In questa ottica il ruolo del sindacato deve essere pieno e tenace nella difesa dei “diritti” dei milioni di pubblici dipendenti che lavorano con impegno e onestà (facendosi carico anche delle inefficienze generate dai loro colleghi “lavativi”), ma devono pure saper distinguere che l’inefficienza generata dall’ABUSO delle garanzie (ad esempio assenze per malattie) e delle agevolazioni di legge (ad esempio permessi Legge 104) mette a repentaglio la sussistenza di quegli stessi diritti (rendendo invisi all’opinione pubblica dei sacrosanti diritti frutto di conquiste civili) e in più confligge con l’interesse collettivo della comunità all’efficienza della macchina amministrativa di cui gli stessi sindacati devono sentirsi “portatori”! Mi chiedo altrimenti dove starebbe la specificità dei grandi sindacati confederali rispetto ai sindacati autonomi settoriali?

La riforma della Pubblica amministrazione a mio avviso dovrà costituire un punto di svolta culturale che rigeneri il senso del dovere che la nostra comunità nazionale ha seppellito di alibi individuali fatti di “e mica posso salvare io l’Italia”, “ma se fanno tutti così”, “e che sono il più fesso!” … Modello civico che ci coinvolge tutti e in tutti gli ambiti, salvo poi a puntare il dito contro “gli altri” che non si capisce bene chi siano!

In questo senso è positivo l’approccio del Governo che ha posto le linee guida fissando un periodo di 40 giorni per operare una riflessione collettiva sull’argomento per poi concretizzare la legge delega.