si è spenta a Roma il 1 ottobre 2012 una delle voci più sofferte della Shoah che ha sottratto all’oblio e alla mistificazione la pagina più oscura della storia del Novecento.
Conoscevamo Shlomo Venezia, cittadino italiano, ebreo nato a Salonicco, grande testimone del nostro tempo; eravamo abituati ad ascoltare il suo racconto in un silenzio che di colpo si faceva irreale, greve, ascoltavamo la sua voce mentre i suoi occhi, il suo pensiero sembrava andassero altrove, in una dimensione e in una realtà che non può appartenere all’umano.
Era l’11 aprile del 1944 quando il treno della deportazione si fermò sulla Judenrampe di Auschwitz-Birkenau. Dei duemilacinquecento ebrei che erano nello suo stesso convoglio, 648 furono immatricolati e destinati ai vari settori del campo; per gli altri, comprese la madre e le sorelline minori, Marica e Marta, la destinazione finale fu subito la camera a gas.
Shlomo venne assegnato al Sonderkommando, il comando speciale che prendeva in carico coloro che venivano destinati al gas.
Per questo compito erano selezionati giovani dalla costituzione forte e robusta,” in grado di reggere “lavori pesanti”: accompagnare le vittime alle “docce comuni”, svestirle, tranquillizzarle se necessario; rimuovere i cadaveri e trasportarli ai forni crematori, dopo avere loro tolto ogni bene prezioso, tagliato i capelli ed estratto i denti d’oro”. Gli appartenenti al Sonderkommando venivano cambiati ogni tre mesi e cambiati significava eliminati perché l’organizzazione del lager non ammetteva testimoni scomodi. Molti, di fronte alla loro sorte, si suicidarono, ma la maggior parte perse ogni coscienza morale, automatizzandosi e piegando il capo per sopravvivere.
una doppia condanna che lo rese prima vittima e poi carnefice di se stesso negli altri; mai niente di più sadicamente raffinato era stato pensato dall’uomo: rendere la vittima complice, quasi a condividere colpe e responsabilità, perché nessuno si sentisse migliore o eletto, perché nessuno si consolasse con l’idea del martirio. « Aver concepito ed organizzato i Sonderkommandos – dice Primo Levi – è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti ».
Una condanna che peserà sul sopravvissuto costretto dalla ” colpa di vivere” ad un’ angoscia incessante che turba i sogni e avvolge gli attimi di gioia in un sentimento di vergogna, una condanna ad una solitudine infinita. E continuò a vivere in questa grande solitudine Shlomo durante la vita che il destino gli volle regalare al ritorno dalla deportazione, nonostante il grande affetto della famiglia, degli amici, dei giovani che ogni anno accompagnava ad Auschwitz. ” Non ho più avuto una vita normale. Non ho mai potuto dire che tutto andasse bene e andare, come gli altri, a ballare e a divertirmi in allegria.”
All’inizio fu il silenzio, troppo l’orrore di cui era portatore, insopportabile l’incredulità di chi lo ascoltava, che poi non era incredulità ma incapacità per la mente di pensare come possibile quanto egli denunciava.
Poi,quando i tentativi di negazionismo diventarono insostenibili, la sua voce si alzò deflagrante e si fece Storia.
Cominciò allora la sua terza vita, quella della testimonianza. Era il 1992. E ogni volta era un tornare indietro, come se il tempo si fosse cristallizzato nel passato.
Non era più a Roma, o in una scuola davanti a ragazzi attenti e commossi, ma nel campo, dentro il reticolato, in quell’inferno dal quale non era mai uscito.. E quegli occhi, quelle domande mute, quelle implorazioni di pietà si affacciavano alla sua mente, si materializzavano ogni volta che faceva testimonianza; Respirava di nuovo quell’aria scura, pesante, quella puzza che sembrava scendere dall’alto e che si appiccicava addosso come fosse qualcosa di materiale, quasi si potesse toccare..Davanti gli si materializzavano volti sconosciuti e volti noti in un indistinto di voci, lamenti o sussulti di pianti soffocati
La sua tragica esperienza, Shlomo Venezia l’ha fissata nel suo libro Sonderkommando Auschwitz edito da Rizzoli. nel quale racconta la sua infanzia negata, dalle leggi razziali prima e dal ghetto poi, la deportazione, il lager e poi la forza di non morire per restituire il diritto alla vita alle vittime dello sterminio.
Scrisse del crematorio, delle donne mortificate, violate nel loro essere madri, dei bambini da zittire e da ingannare con favole assurde, dei giovani da portare con mano a varcare la soglia del possibile, in fretta perché era già pronto il carico successivo. Diceva la moglie che dopo ogni viaggio ad Auschwitz o dopo ogni lezione gli esplodeva una terribile emicrania che lo isolava dal mondo e lo consegnava ai suoi amici del campo, alla neve, al freddo, alle fiamme e al fumo del camino.
Ora , anche davanti la sua abitazione, sarà posta una pietra d’inciampo, la piccola targa d’ottone della dimensione di un sampietrino (10 x 10 cm.) sulla quale sono incisi il nome della persona deportata, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta. Un inciampo non fisico ma visivo e mentale, per sottrarre all’oblio e restituire alla memoria. Una pietra d’inciampo è posta anche davanti la casa di chi aiutò come poté e a rischio della propria vita le vittime delle persecuzioni razziali. Sono I Giusti delle Nazioni. È importante sottolineare che è stato l’artista tedesco Gunter Demnig,nel 1995 a Colonia, a lanciare l’idea di mettere le pietre d’inciampo, le Stolpersteine, davanti alle abitazioni delle vittime delle persecuzioni razziali oltre che degli “indesiderabili” quali omosessuali, oppositori politici, Rom, Sinti, zingari, testimoni di Geova, pentecostali, malati di mente, portatori di handicap,
Oggi più di 22.000 “pietre” sono state poste in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi, Italia.
Le pietre d’inciampo sono memoria, sono monito, ma ancora oggi spirano venti di guerra a mostrarci che la storia dell’odio continua sempre a ripetersi,sotto forme diverse, con intenti diversi, ma in fondo sempre uguale.