Per l’assessore comunale ragusano (perché ricopre questo importante ruolo nella civica amministrazione del capoluogo, ma di nascita è comisano) Gino Calvo è stato chiesto il rinvio a giudizio perché sospettato di avere falsificato oltre ottanta firme per la presentazione della lista del suo partito, il glorioso Partito Repubblicano Italiano, in occasione delle recenti consultazioni elettorali per il rinnovo del Consiglio provinciale.
Pur rinunciando a tutte le considerazioni fatte in questi giorni, anche su queste stesse colonne, sulla gravità della situazione e sulla rabbia montata e mostrata dall’amministratore che ha annunciato querele nei confronti dei giornalisti e degli editori che hanno dato la notizia della richiesta del rinvio a giudizio con troppa enfasi – sempre secondo il diretto interessato – non mi è possibile non notare un piccolo dettaglio nella intera vicenda.
I partiti di opposizione al Consiglio comunale di Ragusa hanno chiesto a Calvo di dimettersi. L’assessore ha detto di no e nel contempo ha incassato la solidarietà del suo maggiorente, il sindaco Nello Dipasquale, il quale ha immediatamente fatto sapere – per il tramite di quella stessa stampa locale – di non ritenere necessario che Calvo lasci l’incarico assessoriale.
Gli uni, cioè i partiti di opposizione, ritengono giusto e necessario chiedere a Calvo di dimettersi, gli altri, gli amministratori, ritengono giusto e necessario innanzitutto dire il contrario di quanto chiedono i loro oppositori e successivamente spiegare che le eventuali dimissioni potrebbero arrivare solo davanti ad un preciso pronunciamento della magistratura.
Spiace notarlo e quindi riferirlo, ma questi nostri amministratori hanno forse dimenticato le regole della democrazia (o forse non le hanno mai conosciute e tanto meno frequentate). In democrazia, che sarà anche una forma non perfetta di governo ma è pur sempre il male minore tra tutte le possibili forme di governo che gli uomini si sono date da millenni, non è così che funziona. E per dirla chiara, di norma avviene esattamente il contrario. Ovvero: l’amministratore sospettato, indagato, interrogato per fatti che possono tradursi in reato (e a maggiore ragione se in reati attinenti la sua attività propria di amministratore) deve subito presentare le dimissioni dal ruolo pubblico ricoperto. Successivamente sarà l’assemblea elettiva ad accettarle (e non può non accettarle se il sospetto si concretizza in accusa e poi in condanna) oppure a respingerle (nell’auspicato caso che il sospetto decada e non sussistano più motivi di indagine e di reato).
Si sappia che in paesi democratici più evoluti del nostro (sia di antica tradizione democratica, quale potrebbe essere la Gran Bretagna, oppure di recente approdo alla forma di governo affidata al popolo, come per esempio il Giappone) è sovente accaduto che uomini di governo o “semplici” parlamentari abbiano rassegnato le dimissioni dal ruolo pubblico ricoperto per il solo fatto che un giornale abbia montato una campagna di stampa basata su una frase, una foto, una dichiarazione magari poco ponderata. Che abbia ragione il giornale oppure l’uomo politico si verifica e solo dopo si ritirano le dimissioni oppure le si da corso concreto ed effettivo.
Purtroppo in questo disgraziato Paese il senso vero della democrazia si è perso ormai da tempo. Accade quindi che un ministro per i Beni culturali – all’indomani dei vergognosi crolli a Pompei (che, per inciso, nel frattempo sono continuati nell’assordante silenzio di tutta la stampa nazionale) e per i quali hanno gridato allo scandalo i giornali di tutto il mondo – non soltanto non si presenti spontaneamente prima al Parlamento e poi dal Presidente della Repubblica a consegnare la lettera di dimissioni, ma al contrario si affretti a dichiarare che la colpa di quei crolli non è certamente sua ma di altri, da individuare e possibilmente punire.
E se i partiti di opposizione – ricorrendo ad un antico quanto fondamentale strumento della pratica democratica ovvero la sfiducia – costringono il ministro in Parlamento e la maggioranza che lo sostiene a cercare il sostegno anche di parlamentari che ufficialmente non fanno parte della stessa maggioranza (con quali argomenti non ci interessa in questa sede), noi cittadini abbiamo avuto offerto lo spettacolo di un ministro pallido prima del voto e poi rincuorato e financo congratulato dai colleghi parlamentari per il pericolo scampato davanti ad un voto che ha respinto la richiesta di sfiducia di una parte dell’assemblea.
Quale soddisfazione, almeno per noi che viviamo in questa parte estrema del Paese, il ricordare che questo novello metodo che di democratico ha soltanto il nome è stato inaugurato proprio da queste parti e da nostri conterranei. Qualcuno ricorda ancora di quando l’avvocato Giovanni Mauro, incarcerato (nel senso etimologicamente proprio di essere momentaneamente residente dentro le patrie galere) non sentì la necessità di dimettersi dalla carica di Presidente della Provincia?
Come sempre non abbiamo mai la brutta abitudine di contraddire i nostri collaboratori ma in questa circostanza vogliamo precisare solo che in sede di Appello il presidente Mauro venne assolto. (f.p.)