Ai miei tempi, a scuola, si studiavano a memoria moltissime poesie, (per non parlare di pezzi di poemi). Alcune erano brevi, altre lunghe, alcune mi piacevano, altre no (e queste mi rifiutavo di studiarle a memoria), di quelle che apprezzavo allora, ancora oggi rammento almeno qualche strofa. Quelle del Giusti erano lunghe, ma anche divertenti.
Mi pare una cosa ben fatta rendere omaggio a questo poeta.
Giuseppe Giusti nacque a Monsummano Terme (Pistoia), il 21 maggio 1809. Non ebbe una vita ricca di eventi di particolare rilievo, a parte quelli riguardanti i contrasti con il padre, aggravati da qualche intemperanza giovanile e da partecipazione a manifestazioni di piazza: a questi in gran parte si deve la componente malinconica, ipocondriaca (aggravatasi con gli anni) in contrasto con la vena giocosa e satirica di cui le sue poesie sono espressione.
Quando nel 1843 entrò in più intima amicizia con Gino Capponi, il Giusti aveva già composto alcune grandi poesie (o scherzi, come lui le chiamava) di satira dei costumi come La legge penale per gl’impiegati, sul malgoverno toscano, Il ballo, sulle nuove mode della borghesia arricchita e arrogante, Costumi del giorno, Lo stivale, l’Apologia del lotto sulla decadenza del costume civile, Gli umanitari, contro i princìpi di fratellanza universale, Il Re Travicello, La terra dei morti, sulle giuste aspirazioni risorgimentali, e non solo.
L’influenza del Capponi produsse nel Giusti un avvicinamento e una adesione sempre più convinta al pensiero cattolico-liberale. Contò molto anche il viaggio a Milano e la frequentazione di Alessandro Manzoni e dei suoi amici, soprattutto Torti e Grossi.
Sono di questo periodo Gingillino, ritratto dell’arrampicatore politico, Il papato di prete Pero, su un’immaginaria o, per meglio dire, utopistica riforma dello Stato della Chiesa, La rassegnazione, Sant’Ambrogio.
Negli ultimi anni partecipò alle vicende del ’48, appoggiando il governo moderato di Ridolfi e Capponi. Morì a Firenze 31 marzo 1850.
Quando nel 1844 comparve, a sua insaputa, a Lugano, la prima stampa clandestina delle Poesie, con una prefazione di Cesare Correnti, la sua fortuna di pubblico fu enorme, grazie anche a una circolazione manoscritta e orale dei suoi testi.
De Sanctis meditò di scrivere un intero saggio su di lui e Giosuè Carducci ne 1859, gli riservò uno scritto.
Giusti non fu poeta ‘popolare’ e la sua poesia riprende in parte l’insegnamento del Parini.
Decisamente meno interessanti le sue prose.
Ed ora uno scherzo, composto nel 1841 intitolato Il Re Travicello (il riferimento è a Leopoldo II di Toscana), ma si potrebbe definire attualissimo.
Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch’io
cascato da Dio:
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!
Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan sempre del chiasso:
ma subito tacque,
e al sommo dell’acque
rimase un corbello
il Re Travicello.
Da tutto il pantano
veduto quel coso,
-È questo il Sovrano
così rumoroso? –
(s’udì gracidare).
-Per farsi fischiare
fa tanto bordello
un Re Travicello?
Un tronco piallato
avrà la corona?
O Giove ha sbagliato,
oppur ci minchiona:
sia dato lo sfratto
al Re mentecatto,
si mandi in appello
il Re Travicello. –
Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.
Non tira a pelare,
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.
Là là per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia,
e mai dello Stato
non pesca nel fondo:
che scienza di mondo!
che Re di cervello
è un Re Travicello!
Se a caso s’adopra
d’intingere il capo,
vedete? di sopra
lo porta daccapo
la sua leggerezza.
Chiamatelo Altezza,
ché torna a capello
a un Re Travicello.
Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!
Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo,
che Principe sodo,
che santo modello
un Re Travicello!