Giuseppe Savasta: “Vi racconto com’è stata vissuta la pandemia dagli infermieri…”

«Con i casi in costante aumento e con i posti letto che si avvicinano alla saturazione, a più di un anno dall’inizio della pandemia gli infermieri sono davvero esausti». Il segretario territoriale del NurSind Ragusa, Giuseppe Savasta, racconta così la difficile situazione lavorativa di una categoria che da quando è esplosa l’emergenza sanitaria si è trovata a combattere il Covid in prima linea.

«Ricevo tutti i giorni telefonate di colleghi che mi raccontano cosa stanno vivendo – continua – e la frase che si ripete ogni volta è sempre la stessa: “siamo stremati. Non stiamo parlando di una stanchezza fisica, quella che passa con una sana nottata di riposo, ma bensì di una stanchezza ancora più profonda e logorante, quella psicologica. Molti infermieri mi riferiscono che hanno difficoltà a prendere sonno perché rimbombano continuamente nelle loro teste il rumore delle ambulanze, i monitor che continuano a suonare, le richieste di assistenza da parte delle persone che hanno fame d’aria e chiedono aiuto. Diversi colleghi mi parlano della comparsa di sintomi claustrofobici, immersi giorno dopo giorno, ora dopo ora, per più di 8 ore, continuamente in quelle tute da palombari o astronauti.

“Certo, – prosegue – penserete che è normale, che gli infermieri non devono lamentarsi, d’altronde è il loro lavoro. Sì, è il nostro lavoro, siamo dei professionisti, chiamateci pure eroi, ma siamo soprattutto donne e uomini, con sentimenti, paure, angosce che se pur istruiti a tener ben nascosti, dopo più di un anno in trincea, cominciano a farsi strada nei cuori e nelle teste di tutti noi. I pazienti in cerca di assistenza ti guardano con degli occhi che dicono costantemente “stammi vicino, ho paura, aiutami…”.

Quando poi, finisci il turno esausto per aver dato il massimo in quella tuta che avvolge corpi che sgocciolano di sudore, ti fai una doccia per poter eliminare tutti quei germi che avresti potuto prendere, ti guardi il corpo e riesci a togliere quasi tutto, tranne quei sguardi che ti continuano a seguire, come tatuati sulla pelle. Porteremo per sempre queste cicatrici nell’anima. Poi torni a casa, tra le tue mura, nella tua fortezza, dove ti aspettano mogli, mariti, figli, mamme e papà che ti supportano giornalmente con la consapevolezza, la comprensione e tutto l’amore che solo loro possono darti. Ma il sollievo, se pur costante, viene interrotto da quel pensiero che ti riecheggia nel cuore “ chissà come sta quel paziente, chissà se lo ritroverò al prossimo turno, magari stara meglio ed è stato spostato in un reparto meno intensivo. Ma purtroppo accade anche che rientri in turno e ti danno la terrificante notizia che quel paziente non ce l’ha fatta. Diventi come un pugile al dodicesimo round che continua a prendere pugni, ma rimani in piedi pensando che hai un altro round da affrontare, un altro paziente da assiste ed allora ti carichi e ricominci di nuovo a fare il tuo lavoro a testa bassa, senza ma e senza se».

Conclude: «Ed ecco allora, come rappresentante sindacale degli infermieri, che rivolgo un appello a tutta la cittadinanza: “Aiutateci ad aiutarvi”. Far parte di una comunità significa prendersi cura e proteggere tutti. Quando non indossi la mascherina non proteggi l’anziano che è a casa, quando non sanifichi le mani non proteggi la casalinga che deve fare la spesa, quando crei assembramenti non proteggi i bambini che vanno a scuola. Aiutateci ad aiutarvi, perché i soldati, gli Infermieri, in trincea, stanno dando il tutto per tutto, ma solo se ognuno di noi fa la sua parte, potremo riuscire a sconfiggere questo nemico invisibile».

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