Concludo il breve ciclo dei poeti siciliani parlando proprio delle origini da cui scaturisce la nascita della letteratura italiana.
Come già in Francia, in Germania e in Spagna, anche in Italia nella prima metà del Duecento, fiorisce una produzione lirica, nata ad imitazione della poesia trobadorica, che utilizza, invece della lingua provenzale, una lingua locale, nazionale.
Centro propulsore, che diede l’avvio alla nostra lingua e tradizione poetica, fu la corte sveva di Sicilia, ambiente scientifico e letterario disponibile alle correnti di pensiero greco-arabe, animati da eterogenei interessi culturali e dall’attività di Federico II (1194-1250), alla cui corte si raccoglievano i dotti più celebri del tempo (astronomi, filosofi, giuristi, scienziati, ecc.)
Federico II, anch’egli poeta in volgare e autore di un notevole trattato di falconeria in latino (De arte venandi cum avibus, Sull’arte di cacciare con gli uccelli), che documenta quanto sia profonda la sua cultura, unisce alle sue straordinarie doti intellettuali, quelle di altrettanto elevate doti politiche, che gli permettono il governo dell’Impero e l’organizzazione nel Mezzogiorno, di quello che viene definito “Il primo Stato moderno della storia d’Europa”. Egli perseguiva l’obbiettivo di un’egemonia ghibellina nella penisola: imporre il controllo della corona sulle città del regno, politicamente troppo libere; sui feudatari, spesso di nomina papale (quindi guelfi); e soprattutto sulle istituzioni ecclesiastiche.
Quindi, da un lato una forte centralizzazione del potere, l’impiego di funzionari non appartenenti alla nobiltà, possibilmente laici e con una specifica preparazione; dall’altro la necessità, per gli uomini dell’apparato di una formazione culturale al di fuori dalle scuole, anche se prestigiose, legate all’istituzione ecclesiastica (Bologna, Montecassino), questa necessità è anche all’origine della fondazione della scuola napoletana, di nomina regia.
È evidente che una politica culturale come questa, tesa a emancipare il regno dal dominio della Chiesa, avrebbe tenuto conto, in campo letterario, il modello trobadorico, che all’epoca costituiva la tradizione laica di maggior prestigio; una tradizione, cioè, nata e diffusa sempre in stretto contatto con le corti, legata a uno stile di vita raffinato ed esclusivo, ad una società aristocratica colta, quindi facilmente esportabile in un ambiente che offriva i giusti requisiti come quello della corte sveva.
Qui però, staccata dal contesto feudale d’origine, la poesia cortese tende a spezzare ogni legame con le esperienze di vita, con la quotidianità e accentua il suo carattere di gioco elegante e convenzionale.
Un altro dato importante: nella società fortemente centralizzata e cortigiana del regno cambia anche la figura del poeta, che non è più un professionista, come il trovatore, ma un dilettante colto, esponente di una élite laica di funzionari dell’apparato burocratico dello stato, notai e magistrati (solo raramente nobili) che coltivano la letteratura in volgare come svago ed evasione.
Stimolata dal disegno politico dell’imperatore, la nascita del volgare coincide con una ripresa della conoscenza del latino.
Alla corte sveva, dove la produzione in volgare è limitata alla lirica, prospera infatti (da Federico II a Pier della Vigna) la letteratura latina, soprattutto in prosa e nelle traduzioni di testi arabi e greci. Va anche tenuto conto che la corte di Federico II è una corte itinerante; fatto che favorisce gli scambi con i centri culturali di altre regioni del regno e della penisola e agevola i contatti con poeti e intellettuali di varia provenienza geografica. A questa corte appartengono o vi sono collegati, gli esponenti della Scuola siciliana, i Siciliani.
La definizione di “siciliani” è già comunemente usato nella seconda metà del Duecento, per designare i primi rimatori cortesi in volgare in Italia, prevalentemente ma non esclusivamente siculo-meridionali, attivi negli anni del regno di Federico II e del figlio Manfredi (1232 circa -1266). Con questo significato che arriva a comprendere tutta la poesia pre-stilnovistica, lo accoglie Dante nel suo trattato De Vulgare Eloquentia (L’eloquenza volgare, I, XII, 1-4) e ne documenta insieme l’uso ormai corrente: “quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur” (“tutto ciò che gli italiani compongono in poesia viene detto siciliano).
Alcuni dei più noti di questi autori: Giacomo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Guido delle Colonne, Cielo d’Alcamo.
Propongo un famoso sonetto di Giacomo da Lentini.
Io m’aggio posto in core
Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco, c’aggio audito dire,
o’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’à blonda testa e claro viso,
che senza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io pecato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
che ‘l mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.