IL BARONE E IL BARONETTO

 

Avanti e indietro nel corridoio della clinica universitaria aspetto che qualcuno dei chirurghi esca per avere informazioni circa l’operazione di mia sorella. Il corridoio è lungo. Da un lato l’ingresso dalla grande sala d’aspetto con l’ufficio di accettazione e dall’altro diverse porte. Su ognuna c’è il nome del primario titolare delle varie specializzazioni di chirurgia. Tra una porta e l’altra delle panche con delle persone che aspettano. In testa, una porta con su scritto: SALE OPERATORIE / VIETATO ENTRARE. In centro, nella parete, l’orologio segna le nove e venti. In fondo due panche si fronteggiano, c’è un gruppo di persone con uno che anima un’allegra conversazione.

Di solito mi intrigo nelle allegre combriccole dando sempre un buon contributo. Anche stavolta mi spunta un pizzico di voglia ma lascio perdere. Il mio istrionismo è talmente sperimentato che può fare a meno di una ulteriore conferma.

Piuttosto ne approfitto per studiare e regolare la mia postura nel camminare che, da quando pratico il Tejas Yana: arte della spada e di ricerca sulla meditazione, sta migliorando notevolmente. Avanzo lentamente, le ginocchia un po’ piegate, mantengo il peso sul piede che spinge prima di poggiare quello che avanza, cerco di tenere l’asse senza oscillare a destra e a sinistra, la schiena dritta poggiata sul bacino, curo la respirazione. Mi accorgo che la pianta del piede non poggia bene al suolo, aumento la pressione sul pavimento per non barcollare. Penso anche a come il mio modo di camminare ha influenzato il mio modo d’essere e viceversa. Ho il ricordo netto del momento in cui, dopo l’Accademia militare di Modena, dove avevo imparato a camminare dritto e ardito, decisi di riprendere a camminare come prima: da bullo da strapazzo, mi aveva detto il tenente. Qualcuno, tra gli astanti e tra chi passa, si accorge del mio procedere un po’ strano e mi lancia, con lo sguardo, qualche punto interrogativo. 

Dal fondo del corridoio vedo avanzare un uomo di una certa età, vestito di verde, la tuta usa e getta dei chirurghi, la mascherina di garza pendente sul collo, alto, magro, spalle curve, sguardo fisso e sereno. Procede a piccoli passi con una andatura particolare, molto particolare, lenta, sicura, maestosa come quella di un transatlantico in mezzo al mare calmo. Mi chiedo che collegamento c’è tra il suo modo di camminare e d’essere. Cammina strano e magari sbagliato ma, non ho dubbi, certamente è uno di quei baroni universitari che sanno il fatto loro. Lo seguo fino alla porta con su scritto SALE OPERATORIE e ritorno al mio esercizio.

Continuo per un’altra ora e più. L’orologio segna le undici e dieci quando decido di sedermi per fare un po’ di meditazione o training autogeno. Sono beatamente rilassato quando vengo distratto dal passaggio di un giovane alto, dritto, con zazzera di una incuria ben curata, falcata sciolta e decisa, camice bianco aperto, trasandato, svolazzante. Un medico sicuramente. Non un medico e basta, uno nato medico, figlio di barone sicuramente che ha assorbito l’humus baronale ciucciando il latte materno. Un baronetto, insomma! E già, perché all’università le cattedre si trasmettono da padre in figlio. Proprio in mezzo al corridoio c’è la porta con su scritto Prof. Vasile. Chiedo ad un giovane studente con la tesi in mano: «Ma è il famoso chirurgo?». «Sì». Si apre la porta, si vedono alcune persone in camice bianco, chiedo: «Chi è?». «Quello là». «Ma è giovane, ha meno di sessant’anni! Era famoso già quando io andavo all’università». «No, quello era il padre, ancora più famoso; è ancora vivo, ha oltre novant’anni».

L’orologio segna le dodici meno cinque. Mi sposto nella sala d’aspetto. Tento invano di avere una qualche informazione dall’addetta all’accettazione. C’è ancora della gente seduta nelle panche. La mia attenzione è attratta da una mamma quarantenne con una bimba di poco più di un anno. Le avevo notate già dal mattino ma ora la bimba si agita e piange. La madre tenta invano di farla addormentare. Abbozzo con le mani dei segni di danza, la bimba abbocca ammaliata, faccio il gesto di prenderla, accetta. La trastullo e la coccolo per un po’. Ci sta bene in braccio a me. La madre si rilassa. Restituisco la bimba.

Ritorno nel corridoio. Passeggio normalmente. L’orologio segna l’una e dieci quando dalla sala d’aspetto irrompe un paziente, bassino, rotondetto, camicia, cravatta, pullover a spilla, vestito dozzinale, grigio, tutto grigio anche l’espressione, l’espressione di chi si è accontentato del poco che la vita gli ha dato. Ora fa l’incazzato e inveisce contro il baronetto: «Non ci potete trattare così, è dalle otto di stamattina che stiamo qua ad aspettare e ancora non si sa quando ci riceve». Il baronetto: «Sta operando, appena finisce vi riceve». E l’altro di rimando: «Non è giusto, non si trattano così neanche le bestie». Il baronetto, pronto e deciso: «Io con lei non ci parlo». C’è accanto un altro dottore, basette brizzolate, camice bianco abbottonato, pulitissimo, in ordine, tutto in ordine, faccia distesa, contenta, gioviale, non leggo tracce di eredità baronale, si intromette e rivolto all’incazzato: «Il professore non è certo andato a spasso, sta operando, l’operazione si sarà prolungata più del previsto e non può certo lasciare l’ammalato sotto i ferri per fare le visite, non le pare?». Il povero diavolo: «Perché non fa un giorno le visite ed un giorno le operazioni?!». Il baronetto: «Ora questo pretende di insegnare a mio padre come organizzarsi nel lavoro!».

I dottori vanno via, il grigio resta con l’espressione ancora più grigia e io riprendo la mia passeggiata. All’una e trenta la sala d’aspetto chiude e un gruppo di sei, sette pazienti viene catapultato nel corridoio. Aspettano tutti d’essere ricevuti dal prof. Polito. Si attorniano al grigio al centro del corridoio, la vicinanza li incoraggia, si lamentano in coro, alzano la voce. In fondo al corridoio, il gruppetto non è più allegro, chi animava la conversazione è andato via. C’è, proprio là, la porta con su scritto prof. Polito, esce il baronetto e il gruppetto protesta. Il baronetto: «Fatele a lui le proteste. Invece di rivolgervi a me, protestate con lui». Tuttavia svolazza e galoppa tranquillo, gli scivolano addosso anche le proteste del gruppo attorno al grigio e si dilegua. Passano ancora altri minuti e il brontolio diventa generale e continuo, tutti dicono la loro, tutti hanno una soluzione. C’è una eccitata animazione quando, dalla porta con su scritto SALE OPERATORIE, appare l’uomo in verde dall’andatura particolare. Silenzio immediato. Assoluto. L’uomo in verde spalle curve, sguardo fisso e sicuro, a piccoli passi fende, con andatura da transatlantico, il silenzio corposo dei pazienti, tutti a bocca chiusa e occhi pietosi e speranzosi.

Domando: «Chi è?». «Il prof. Polito».

Ragusa, 23 dicembre 2008                               

Ciccio Schembari

 

Articolo pubblicato sul n. 42/2009 “Caro amico, ti scrivo. . .” della rivista online www.operaincerta.it