IL POPOLO CURDO TRA OSTRACISMO INTERNAZIONE E OPPOSIZIONE ALL’ISIS

L’Occidente ha affidato ai curdi, nella loro sostanziale interezza, il compito di essere tra i difensori fondamentali, in quanto combattenti sul terreno, dei propri interessi in Medio Oriente, spesso sporchi, e, indirettamente, della sicurezza in Europa.

E’ vero che i curdi sono stati storicamente fratti in più modi, in genere per l’azione dei governi degli stati che se ne erano spartiti i territori. L’inesistenza storica di uno stato curdo di larga consistenza territoriale ha inoltre impedito la formazione di una lingua curda unitaria.

Il popolo curdo, infatti, è differentemente spalmato tra Turchia, Siria, Iran e Iraq.

Non hanno uno Stato, solo una regione autonoma, e hanno diverse provenienze etniche e differenti appartenenze politiche,  nonostante la complessa realtà in cui versano, si stanno arduamente scontrando con la minaccia ISIS.

I curdi che combattono lo Stato Islamico, ora appoggiati anche dagli Stati Uniti e aiutati da diversi governi europei (come Francia, Italia e Gran Bretagna) con l’invio di armi e munizioni, hanno messo da parte le divisioni per unirsi contro il nemico comune chiamato Isis.

A metà agosto hanno ripreso il controllo della diga di Mosul, bloccando l’avanzata dei jihadisti, ma chi sono i curdi che combattono lo Stato Islamico? Nel fronte iracheno, sono schierati i Peshmerga, termine che tradotto letteralmente significa: “coloro che affrontano la morte”, ovvero  quelle forze governative della regione autonoma del Kurdistan appartenenti al Partito Democratico del Kurdistan (PDK) guidato ora da Masoud Barzani.

Già nel 2003 i peshmerga si schierarono accanto agli Stati Uniti nella guerra contro Saddam Hussein, come ha ricordato l’ex ministro degli Esteri iracheno Hoshyar Zebari in una lettera al Washington Post.

Ma accanto alle forze governative del PDK, combattono contro i jihadisti dell’Isis anche le forze dell’UPK, l’Unione Patriottica del Kurdistan, e del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, seppure viste con occhi diversi dall’alleato statunitense.

Il PKK, infatti, è considerato un “gruppo terroristico” sia dagli Usa che dall’Unione Europea, per la lotta armata in territorio turco, sospesa nel 2013 e mirata alla creazione di uno stato curdo che comprendesse parte del sud della Turchia.

Questo è, probabilmente, il motivo del ritardo nel fornire l’aiuto e il sostegno internazionale: gli Stati occidentali, infatti, temono le rivendicazioni indipendentiste una volta respinta la minaccia dell’ISIS.

Come bene mette in evidenza Stefano Consiglio su Internazional Business Times “Gli USA stanno cercando di mantenere unito l’Iraq, sapendo che un’eventuale indipendenza del Kurdistan causerebbe una degenerazione della crisi irachena, trasformando questo Stato in una seconda Somalia. Allo scopo di realizzare questo obiettivo, Mr. Obama si è mosso anche sul fronte economico, introducendo sanzioni per quelle aziende che acquistano petrolio venduto esclusivamente dai curdi.”

All’ opposizione internazionale si somma quella più sfrontata e becera della Turchia: l’attacco al PKK, di pochi giorni fa,  nonostante il cessate-il-fuoco vigente, toglie il velo alle ambiguità del governo Erdogan, che sin’ora aveva frenato ogni coinvolgimento diretto nella guerra. L’obiettivo della Turchia è ormai esplicito: oltre a volere la cacciata di Bashar Assad dalla Siria, Ankara ha intenzione di estirpare definitivamente la minaccia curda dal territorio turco, la cui indipendenza ed eventuale creazione di uno stato autonomo, denominato Kurdistan, non rientrano nei programmi dell’AKP, il partito politico del presidente turco.

Si apre dunque una finestra inedita su questa grande guerra che non può prescindere dalla considerazione dell’accerchiamento da parte di paesi uniti solo dalla volontà di eliminare il comune problema “curdo” che, invece, rappresenta ormai l’ultimo argine all’avanzata del Califfato.

“Problema” che guadagna un margine di respiro grazie alla stessa occasione della guerra in corso che, ovviamente, costituisce un potentissimo fattore di ricomposizione unitaria del popolo curdo. Inoltre, il prestigio dei combattenti di Kobane non è solo un dato mondiale, ma anche un fattore potente di unificazione, emotiva e politica al tempo stesso, di popolo, che travalica separazioni statali e appartenenze politiche.