IPPOLITO PINDEMONTE

 

Ippolito Pindemonte nacque a Verona il 13 novembre 1753, da una nobile famiglia e si formò alla prestigiosa scuola del poeta modenese Giuliano Cassiani, impegnata a sconfiggere il manierismo della poesia arcadica, e questo, attraverso una rinnovata imitazione dei classici.

Nei primi anni della sua esperienza letteraria sembrò preferire il genere tragico, ma non riuscì a conquistare risultati  significativi. Fondamentale risultò, il viaggio compiuto tra il 1788 e il ’90 nelle principali capitali europee, in particolare Parigi: dall’entusiasmo iniziale per la rivoluzione (scrisse il poemetto  La Francia, stampato a Parigi nel 1789) passò ad un atteggiamento di scetticismo che avrebbe poi esteso anche alla politica in generale.

A Londra, ebbe invece occasione di approfondire la conoscenza di autori del preromanticismo inglese. Passando da Roma diretto a Malta (dove fu insignito del titolo di Cavaliere) conobbe Vincenzo Monti e fu accolto all’Accademia dell’Arcadia. Tornato infine a Verona, Pindemonte si isolò alquanto e visse in quieta solitudine  e scelte amicizie (tra cui importante fu quella di Isabella Teocchi-Albrizzi, amica molto cara anche di Ugo Foscolo) nel quale amava rifugiarsi in appartata meditazione, come assecondando il gusto per i “piaceri dell’immaginazione” (titolo di un fortunato poemetto del poeta inglese Mark Akenside del 1749) di cui era stata avida la letteratura preromanica.

Morì nella sua città, Verona, il 18 novembre 1828.

In epoca di grandi mutamenti storici, politici e civili, Ippolito Pindemonte potrebbe apparire arroccato su posizioni di retroguardia, quasi ultimo esponente di una letteratura settecentesca da salotto. Del resto, sia il linguaggio che i temi delle sue opere potevano indurre nella convinzione la sua poesia fosse ormai superata dal rinnovamento in corso in quegli anni,  sia nella letteratura che nella società..

Le opere giovanili mostrano un inserimento a pieno titolo proprio del filoni più attuali e dibattuti della poesia coeva (dello stesso periodo), rivelando da parte dell’autore una conoscenza aggiornata e di prima mano di molte opere straniere, anche di sensibilità preromantica.

Si ricordano soprattutto: il Saggio di poesie campestri, del 1788; elegie che risentono dei moduli del poeta svizzero  S. Gessner (1730-88); del preromantico inglese T. Gray (1716-71) e di E. Bertola, che restano la prova di maggiore equilibrio artistico. Tra le opere minori si ricorda il romanzo Abaritte, storia verissima del 1790, la Dissertazione dei giardini inglesi e sul merito di ciò dell’Italia; le Epistole e i Sermoni.

Una curiosità: il poemetto I Cimiteri fu interrotto quando  Pindemonte seppe che Foscolo aveva composto i suoi Sepolcri.

Va ricordata inoltre la traduzione dell’Odissea, durata quindici anni.

La sua sensibilità preromantica e l’estremo controllo della forma, che gli veniva dalla scuola modenese, nella maturità, sembra diviso tra  i modelli di Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, senza riuscire  a trovare una sua  voce originale.

Il modesto interesse della sua opera da parte della critica, anche se godette di un discreto successo presso i contemporanei, si deve a questo insieme di circostanze, che finiscono per sminuire anche  troppo  un autore dotato di vocazione poetica autentica, con una preparazione di prim’ordine, che garantisce alla sue opere un decoro letterario che spiega la fortuna nell’Ottocento. Attualmente la critica guarda  con molto favore alla traduzione dell’Odissea,  frutto  di una originale  interpretazione della poesia omerica.

 

Dalle Poesie campestri, le ultime due strofe di La sera.

 

O bella Sera, amabil dea fra mille,

ché non suonano i miei versi più dolce

e il gentile tuo viso  e le pupille,

onde melanconia spira sì dolce,

e il crin, che ambrosia piove a larghe stille;

e quel, che l’aure rinfrescando molce,

respiro della tua bocca rosata,

che non ho per lodar voce più grata?

 

Ma o sia che rompa d’improvviso un nembo,

che a te spruzzi il bel crin, la Primavera,

o il sen nuda, e alla veste alzando il lembo

l’Estate incontro a te mova leggiera,

o che Autunno di foglie il casto grembo

goda a te ricolmar, te, dolce Sera,

canterò pur, s’io mai potessi l’ora

tanto o quanto allungar di tua dimora.