Il vino veneto godeva in passato di una fama abbastanza mediocre. Il Veneto, insieme alla Puglia e alla Sicilia, era una delle regioni più produttive di vino, ma questi vini erano effettivamente nella loro maggioranza prodotti ordinari, quando non sotto la soglia della sufficienza. Questo enorme numero di vini mediocri intaccava fortemente il giudizio complessivo sull’enologia veneta.
Molte cose sono cambiate negli ultimi 50 anni e il Veneto oggi vanta una produzione globale di tutto rispetto. Il primo nome, che viene alla mente pensando al Veneto, è senza ombra di dubbio l’Amarone della Valpolicella. Il Veneto però conta una lunga serie di vini, sicuramente meno impegnativi dell’Amarone, ma più adatti all’abbinamento con il cibo.
Particolarmente vocato alla produzione di vino è quel lembo di terra, che, partendo dal Lago di Garda, giunge alle porte di Vicenza. Qui si trovano, escludendo Conegliano Valdobbiadene, le denominazioni più celebri del Veneto.
Il terreno di origine vulcanica è molto fertile e garantisce un facile raccolto, ma proprio per questo in passato era norma imbattersi in vini decisamente scialbi. Un terreno molto fertile porta il rischio di una sovrapproduzione di frutto. Il problema della sovrapproduzione ricade sulla qualità del vino. Più frutto ci sarà sulla pianta, meno sostanze aromatiche avrà il vino. O meglio, le sostanze aromatiche saranno le stesse, ma saranno diluite nel maggiore quantitativo di uva. Proprio per evitare di ottenere dell’uva insipida, il produttore deve ricorrere a una serie di potature, atte a ridurre il numero di grappoli che la pianta produrrà. Meno frutta produrrà la pianta, più concentrate saranno queste sostanze. Ovviamente questo non basta per fare un buon vino, poiché se, per esempio, la conformazione del terreno poco si presta a un determinato vitigno, il prodotto finito verrà comunque difettoso, anzi i difetti saranno più evidenti. È ovvio che comunque la potatura per frenare la sovrapproduzione è un elemento fondamentale per il vino di qualità.
Il fattore della sovrapproduzione è probabilmente l’elemento principale della carenza di qualità nei vini veneti di una volta. Ora però, nonostante i grandi cambiamenti, persistono ancora dei problemi legati allo stesso fattore, sebbene in modo meno marcato. In ogni caso molti sono i vini tutt’oggi al limite della mediocrità, a causa delle rese troppo alte. Emblematico a proposito è la DOC Soave, etichetta abbastanza comune negli scaffali dei supermercati, la quale permette un tetto di resa decisamente alto per poter parlare di qualità. Non sono poche le vigne che producono al livello massimo permesso dal disciplinare e i produttori si accontentano di vendere il raccolto alle cooperative o ad altri produttori, che si occuperanno di vinificarle. Questa pratica è tutt’oggi comune in questo disciplinare. Anzi la maggior parte della vigne, si parla di circa il 60%, produce ai livelli massimi permessi. La situazione divenne così grave, che, grazie all’impegno di vari produttori, si è riusciti a creare altri due disciplinari dalla DOC Soave, con lo scopo di differenziare il Soave di qualità dagli altri prodotti. Ora la nascita della DOC Soave Classico, ossia della zona storica, e della DOCG Soave Superiore, non hanno risolto del tutto i problemi legati al rilancio di questo vino. La resa del Soave Classico resta ancora troppo alta. Tanto che si è costretti a fare affidamento più al nome del produttore, del quale si sa che mantiene le rese ben al di sotto dei limiti permessi, piuttosto che al nome del disciplinare, che effettivamente non garantisce la qualità. Il discorso cambia con il disciplinare del Soave Superiore, che sebbene possa essere migliorato, assicura almeno un livello di resa di produzione più che accettabile.
Il vitigno principale per produzione del Soave è la garganega, considerato da molti una versione locale di trebbiano. La presunta parentela data con il trebbiano, vitigno ritenuto secondario, ha in qualche modo sminuito il giudizio sulle potenzialità della garganega, la quale, se coltivata con le dovute attenzioni, è capace di produrre vini di insospettabile longevità. Ma è d’obbligo, se si vuole ottenere un buon prodotto con la garganega, procedere innanzitutto con rese fortemente basse. Grazie a questo sistema, alcuni produttori hanno messo in discussione il giudizio negativo che una parte della critica enologica ha nei confronti della garganega. Alcune etichette della zona di Soave sono molto lontane, tanto da sembrare altri vitigni, dai Soave a cui ci si era abituati in passato.
Le critiche non si limitano, però, soltanto alla rese alte. Sono molti quelli che lamentano la presenza di chardonnay nel disciplinare di produzione. Mentre il trebbiano di Soave, che altro non è che il verdicchio, è un vitigno locale, lo chardonnay non solo non è autoctono, ma soprattutto è un vitigno invadente. Ciò vuol dire che nonostante il garganega debba essere presente almeno al 70%, la presenza di un 30% di chardonnay cambia radicalmente il volto al vino, dandogli una morbidezza e un contorno olfattivo poco tipici o se vogliamo pericolosamente internazionali. I produttori più coscienziosi evitano fortunatamente di aggiungere chardonnay al prodotto e si limitano o alla garganega in purezza o al taglio con il trebbiano di Soave.
Nonostante i disciplinari di produzione, il Soave Superiore è un prodotto nella maggior parte delle volte ben al di sopra del prodotto medio. Anzi è in genere un prodotto ben al di sopra delle aspettative, capace di maturare anche 10 anni, e anche il prezzo certe volte si colloca in una fascia a cui si è poco abituati parlando di Soave.
La versione più tipica di Soave è quella in acciaio, ma non mancano sperimentazioni con il legno, che hanno dato buoni risultati.