La prepotenza e la sopraffazione hanno attraversato la storia dell’umanità mettendo radici profonde nella cultura e nell’organizzazione dei sistemi sociali. Va però detto che da sole non avrebbero avuto la forza di radicarsi tanto in profondità senza il valore aggiunto della menzogna, lo strumento con il quale si costruisce la verità (triste paradosso). La menzogna come retorica, come rappresentazione, come costruzione ideologica.
Alla menzogna e alla sua strategia nella politica contemporanea è dedicato il libro La fabbrica del falso, di Vladimiro Giacchè. Un’analisi documentata e militante dei miti ideologici di cui si nutre l’informazione al potere, di cui vengono offerti numerosi esempi di “luoghi” retorici con i quali si costruisce incessantemente la “verità” funzionale. Significativa è la posizione dell’Autore rispetto al concetto post-moderno di verità: se questa non esiste, certamente esistono le menzogne! Ancora più significativo è il fatto che la terza conclusiva parte del libro è intitolata alle “strategie di resistenza”: in nome di un’etica intellettuale e politica di critica militante.
A una delle più grandi menzogne della nostra era – quella costruita intorno al nesso causale terrorismo→risposta militare – è ispirato uno dei film più premiati ed emozionanti di quest’anno, Zero Dark Thirty, dell’adrenalinica Kathryn Bigelow. La storia dei dieci anni che separano e uniscono l’11 settembre 2001 e l’uccisione di Osama Bin Laden da parte delle forze speciali americane. Il merito del film, oltre ai soliti proverbiali valori estetici delle cose della Bigelow – impatto emotivo, ritmo, forte caratterizzazione – è nel coraggio di raccontare una vicenda ai confini del bene e del male senza paludamenti e retoriche patriottiche. Mettendo anzi in scena, in modo asciutto e analitico, la crudele realpolitik dell’amministrazione americana, che ammetteva (e ammette) – sia pure dietro ipocrite sconfessioni – l’uso della tortura come strumento di lotta al terrorismo.
Assolutamente anti-retorica fu e rimane la musica di Ornette Coleman, uno dei grandi del novecento, esplosa a ridosso di quel passaggio epocale che fu la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60. Suoni e strutture antiaccademiche (e pure così vicini alla lezione dell’atonalità contemporanea), un genuino e struggente blues feeling di schietta derivazione afro-americana, melodie taglienti come lame, scansioni ritmiche irregolari e un tessuto mobile, incessante, che si sfrangia e ricompone continuamente. Il doppio live al Golden Circle di Stoccolma del ’65 fotografa un trio in stato di grazia, che raggiunge il suo zenith interpretativo nella superba European Echoes