LA SCISSIONE

Sembra il titolo di un film di Bergman e invece è il titolo giusto per una riflessione sul PD. Che non accenna a sembrare neanche un po’ quello che da anni promette di essere: un partito della sinistra.

Cosa può rendere auspicabile, perfino desiderabile, una rottura del partito? Cosa può convincere tanti elettori del fatto che una divisione netta fra una parte e un’altra del partito sarebbe un bene per la sinistra e per il paese?

Gli scettici e i furbi sono convinti che quella del PD sia l’unica possibilità per la sinistra di avere il potere in Italia. Un po’ come dire che l’unico modo per essere bianchi è indossare infinite sfumature di grigio (non me ne vogliano i lettori seri…..)!

Quella del potere è la malattia geneticamente acquisita di questo paese, che non ha mai contemplato nella sua cultura politica il concetto che il potere medesimo non è il fine ma un mezzo attraverso cui realizzare altri fini. E così, mettendolo al centro di tutto, ogni possibile trasformazione, ogni possibile accomodamento si rende disponibile e giustificabile. Col triste e paradossale esito di chiunque persegua il potere fine a se stesso: che quando lo ottieni, sei già indistinguibile dai tuoi avversari!

Ma la questione è un tantino più complessa. In realtà, ciò che rende tanto appetibile a tanta gente che si sente e si pensa ancora profondamente di sinistra la fine del PD come partito è una curiosa anomalia che – a mio parere – ammorba la vita politica di questo paese. E che chiameremo l’”incorporamento della dualità”.

C’era una volta uno scenario politico in cui si confrontavano due grandi forze e, dietro esse, due grandi culture: la DC con la sua cultura cattolica della società, e il PCI con la sua cultura materialista dei rapporti sociali. Due forze antagoniste che hanno condotto per decenni una battaglia per l’egemonia, a lungo truccata a favore della prima (vogliamo parlare del Vaticano, della CIA, della NATO, e così via….?). Al tramonto dei travagliati, sofferti e decisivi anni ’70 accade qualcosa di inedito: si sfiora un accordo, una sorta di grandioso patto sociale, un armistizio, un cessate il fuoco, indispensabile a spegnere la vera emergenza che rischia di far saltare il gioco, ovvero il terrorismo.

L’accordo, allora chiamato “compromesso storico”, ci può anche stare. Perché lascia gli attori “accordanti” riconoscibili, distinguibili. Ognuno sa chi è e accetta di fare una tregua con l’Altro, per un fine, uno scopo comune: non farsi togliere le cosiddette libertà democratiche dalle potenze oscure che minacciano la democrazia (concetto astratto che bisogna sempre declinare in un modo o nell’altro….).

Il terrorismo di quegli anni non è solo quello rosso delle BR o di Prima Linea e non è solo quello nero di Avanguardia Nazionale o dei NAR. E’ anche e soprattutto quello delle trame di stato, dei servizi segreti, dei circoli potentissimi del Patto Atlantico, dei poteri finanziari in stato d’assedio dopo le stagioni calde degli Anni ’60. Insomma, ce n’è di ragioni per temere una deriva autoritaria, e così lentamente ma inesorabilmente prende corpo la teoria che solo un grande, storico patto può dare un futuro al paese.

Il patto viene violentemente stoppato, e non solo o non tanto – come a lungo hanno voluto farci credere – perché scompare – vittima proprio di quel terrorismo – l’artefice principale, Aldo Moro. Bensì perché il sistema si sta già velocemente organizzando per la polverizzazione della sinistra, per il progressivo smantellamento dei diritti sociali, per l’instaurazione del neo-liberismo su scala planetaria. Vale a dire, perché non ci sarà più alcun bisogno di un patto, dal momento che il capitale, nelle sue diverse declinazioni politiche e d economiche,  sta già vincendo su tutti i fronti.

Poi il sistema politico italiano (tanto per cambiare) implode, è Mani Pulite, è la fine della prima repubblica, è la discesa in campo di Berlusconi. Cioè, storia contemporanea.

La caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo in Europa accelerano un processo di trasformazione socialdemocratica della sinistra italiana, già abbondantemente varato da Craxi e dal “suo” Partito Socialista. Il PCI diventa PDS, poi DS e infine PD. Perde le ultime connotazioni marxiste e assume una sorta di ideologia liberal di stampo americano che lo rende molto più simile a un partito anglosassone che a una formazione europea.

Ma l’operazione sostanziale più importante e significativa non avviene in superficie, bensì in profondità: il nuovo partito raccoglie il testimone non solo del vecchio PCI ma anche di una parte della DC, che si riconosce in una vaga, ambigua, “morotea” cultura sociale di sinistra. Quella stessa parte di DC che prima della fine conviveva con tutte le altre all’interno della galassia democristiana.

Il compromesso storico, ovvero la “dualità” sostanziale della società italiana adesso non è più nel paese, rappresentata da due partiti diversi e antagonisti. Il compromesso storico è ora dentro il partito, il partito unico, le cui componenti sono divenute indistinguibili, non separabili.

Inutile dire che la battaglia storica, che per decenni ha bloccato l’Italia e che ha visto costantemente la preminenza di una parte sull’altra, con questa operazione di “incorporazione della dualità” è stata definitivamente vinta dalla parte cattolica. La DC non è tornata. Non è mai andata via!