LA SORDITÀ DEL PALAZZO E IL RIFIUTO DEL DIALOGO

L’urgenza del cambiamento è l’istanza più fortemente avanzata, affermata, urlata  dai cittadini italiani in ogni modo legittimo e pacifico. Finora.

Ma fino a quando, se il “Palazzo” rimane sordo? Ridisegnare le istituzioni è condicio sine qua non per mantenerne la valenza di fondamenti della libertà democratica. Dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali e comunali, superare il bicameralismo, abolire gli enti intermedi meno utili, come le province, snellire ogni iter legislativo, in modo da  recuperare  funzionalità ed efficienza, sono da considerare baluardi di difesa delle istituzioni stesse. Altrimenti il prevalere della convinzione che il sistema è irriformabile e che, come tale, vada distrutto, potrebbe divenire inarrestabile.

Ne abbiamo avuto prova nell’affermazione di Grillo, durante il rifiuto di dialogo con Renzi, che non lo interessano  né i programmi né le persone, perché unico suo obiettivo è distruggere il sistema marcio. Distruggere e non restaurare, quindi. E certo per la rabbia covata da anni al cospetto di innumerevoli ingiustizie, sono molti gli italiani che potrebbero dirsi d’accordo. Di fronte al pericolo di una deriva demolitrice che rischia di travolgere senza discernimento insieme a corruzione e ingiustizie anche la democrazia del pluralismo e del rispetto del voto popolare e delle maggioranze, l’unica alternativa sono le riforme. Coraggiose e incisive. Ma democratiche. Per questo i programmi e le persone sono, invece, fondamentali e dovrebbe essere questo il punto del contendere.

Sia al Parlamento sia all’ARS assistiamo, invece, a una resistenza strenua alle riforme. La discussione sull’abolizione delle province ne è uno scoraggiante esempio.

Da un lato le “lamentazioni” dei conservatori che vedono in ogni cambiamento la rovina di tutto, come se vivessimo nel “migliore dei mondi possibili”. Dall’altro la partitocrazia attenta solo a difendere seggi, prebende, posizioni strategiche e, quindi, ostile a ogni snellimento della macchina amministrativa. Infine i franchi tiratori, che si nascondono dietro il voto segreto per consumare i propri giochi o le proprie vendette, come nel peggiore stile della cosiddetta prima repubblica.

Ma noi cittadini che continuiamo a reputare le istituzioni democratiche laicamente sacre, vogliamo vedere onestà intellettuale, chiarezza di idee e di parole, rapidità e concretezza. Superare le province e pensare a un coordinamento snello dei liberi consorzi, per poche funzioni intecomunali, affidato ai sindaci, e solo a loro, senza le pletora dei consiglieri comunali, probabilmente potrebbe alleggerire iter burocratici e costi. I sindaci rivestono le cariche più a diretto contatto con le realtà locali, nelle risorse e nelle carenze; sono l’interfaccia più immediata dello Stato per i loro concittadini, che li conoscono e li giudicano con un vero controllo del loro operato. Per questo anche la proposta di riformare il Senato, facendone la camera delle rappresentanze locali, è interessante e foriera di buone prospettive. Vi siederebbero, senza indennità aggiuntiva, i sindaci dei comuni capoluogo e i presidenti delle regioni, per creare un raccordo fra lo stato centrale e le realtà territoriali. Tutto In pieno spirito costituzionale, come recita l’art. 5: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.