La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola
“Houston! … qui Ragusa.”
“Vacantio ergo sum.” Dicevano gli antichi, molto tempo prima che Facebook emettesse il suo primo selfie.
“Mari del sud”, per chi non l’avesse intercettato, è un film del 2001 (era pre-social, comunque) di Marcello Cesena, il quale cucina e propone una commedia agrodolce e a tratti surreale, in grado di suggerire qualche amena riflessione sulla realtà sociale di allora. E di oggi.
Alberto, il protagonista del film, interpretato da Abatantuono, è un quarantenne consulente finanziario (e dirigente di una società di comunicazioni) molto intraprendente. Un istrionico Abatantuono, davvero in forma, si muove in una storia, che vive di battute felici e difficilmente volgari, becere o pelose, ispirandosi tacitamente in qualche spunto ai Sordi e ai De Sica dei tempi d’oro. Intorno al protagonista sono quasi tutti competitivi, esibizionisti, avvinghiati all’immagine e all’apparenza come lui.
In un passaggio fatidico della trama, però, Alberto scopre di essere stato completamente derubato dal suo commercialista (dileguatosi coi suoi risparmi) e di essere ormai quasi sul lastrico. Dramma nel dramma: è il cuore dell’estate e, non potendo partire per i Caraibi, rischia di fare pubblicamente una insostenibile figuraccia agli occhi di amici, parenti e vicini. Idea: l’intera famiglia finge di essere partita per una vacanza meravigliosa e costosissima, ma invero il nostro eroe (Robinson alla rovescia) si chiude in cantina per ben due settimane insieme alla moglie e alla figlia.
Alberto/Abatantuono cerca di difendere il proprio status e la propria immagine a tutti i costi e trova nella finzione la possibilità di una via d’uscita (si fa per dire, considerando che si tratta di una vera e propria “clausura” ai domiciliari). La situazione anomala evolve inopinatamente in un lieto fine delle relazioni familiari. Il viaggio non compiuto, nella confezione effimera del viaggio a tutti i costi esibito, diventa tragicomicamente una via di salvezza, in una sequela di concatenazioni paradossali e catastrofiche.
La vacanza ai Caraibi, necessaria e impossibile da disdire e negare, mantiene un suo significato nella forma di una rappresentazione. Un’allusione.
Che cosa c’entra la mia osservazione con il film del 2001? Un po’ c’entra. Se attualizziamo per non detti.
La cantina come metafora. Rifugio e fuga dalla propria insicurezza e vergogna non dovuta. La psicologia obliqua della esibizione di ciò che non è stato. O che comunque non è stato nella perfezione scintillante di quel modo. Così esatto e invidiabile.
Il must dell’andare in vacanza, del partire per non restare, trovano oggi nel photoshop dei social la vetrina del viaggio appunto dimostrato, raffigurato, selfato più che vissuto. Al punto che andare in vacanza nelle agognate ferie diventa un lavoro, una gigantesca produzione hollywoodiana, una serie su Netflix di dieci stagioni ad alta tensione e altissima competitività.
Per carità, dico che succede solo a volte, magari raramente. Non vorrei essere querelato: devo pagare ancora i biglietti del mio viaggio.