“L’ESTATE FREDDA” DI GIANRICO CAROFIGLIO

È un romanzo, ma trae linfa vitale dalla realtà. Fatti e personaggi si intrecciano e rincorrono su un tracciato narrativo a doppia corsia dove si rivela molto labile il sottile velo che separa l’invenzione letteratura dalla cronaca giudiziaria. Tre i punti chiave: da una parte i buoni, o quelli che dovrebbero esserlo; dall’altra i cattivi, fedelmente come uno se li immagina, mafiosi, mercanti di morte, criminali comuni, brutali e disperati. Nel mezzo una data particolare che sa di piombo, di efferatezza, di valori dilaniati da un potere che non conosce altro linguaggio se non quello della violenza. Corre l’anno 1992, tra maggio e luglio. A Bari, come altrove, sono giorni in cui si respira nell’aria una verità senza sfumature, fra agguati, uccisioni, casi di lupara bianca. Alla segnalazione del rapimento di un bambino, figlio di un capo clan, il maresciallo Pietro Fenoglio capisce che la situazione è molto grave e che il punto di non ritorno sembra raggiunto. Potrebbe accadere qualunque cosa. Poi, improvvisamente, il giovane boss che ha scatenato la guerra, e che tutti sospettano del sequestro, decide di collaborare con la giustizia. Nella lunga confessione davanti al magistrato, l’uomo ripercorre la propria avventura malavitosa in un vivido racconto gravido di una forza malefica. Ma le dichiarazioni del pentito non basteranno a fare piena luce sulla scomparsa del bambino. Per scoprire la verità il maresciallo sarà costretto a inoltrarsi in un territorio ambiguo e pericoloso dove è più difficile distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Ambientato al tempo delle stragi di Palermo, “L’estate fredda” (Einaudi, pp. 352), il recente lavoro di Gianrico Carofiglio, è qualcosa di sorprendente, costruito su più livelli di lettura che inchiodano alla pagina, offre un caleidoscopico mosaico della parte oscura della natura umana e mettendo anche in luce un protagonista di straordinaria, commovente dignità. E, alla fine, un inaspettato bagliore di speranza.

Quello di Carofiglio (classe 1961), già magistrato e, in questi ultimi anni, scrittore a tempo pieno con al suo attivo numerose pubblicazioni, è un racconto in cui si intravede l’esperienza di quella prima vita da magistrato e sostituto procuratore nell’antimafia, rielaborate sulla pagina con l’occhio clinico del narratore che sa come bilanciare realtà e finzione letteraria, senza che l’una vada ad invadere il campo dell’altra. Un mondo dal quale si è allontanato scegliendo di dedicarsi in toto alla scrittura, ma che fa rivivere pagina per pagina al lettore in maniera intensa. La dimensione narrativa in quest’ultimo romanzo, diviene racconto vorticoso, appassionante e, al contempo, crudo di un mondo criminale regolato da codici, scale gerarchiche, prove di coraggio e fedeltà. Un elemento centrale, ma non dominante, dell’architettura narrativa è certamente la violenza su cui l’autore non indugia più del necessario. Ma è la penna di Carofiglio a puntare sulle emozioni che sgorgano spontanee dall’animo del lettore attraverso la parte testuale nella quale l’autore mescola con perizia registri linguistici differenti. Di qui una prosa che si fa schietta, puntuale, dal linguaggio diretto, per poi sorprendere poco dopo con una forma più ricercata, tra brevi dialoghi e pensieri che si avvicendano. Si nota, dunque, un interscambio testuale che alterna efficacemente la narrazione tradizionale ed appassionata alla lingua rigorosa dei verbali, in cui i fatti sono descritti con il dovuto distacco emotivo. Un particolare narrativo che non passa inosservato è proprio la descrizione di come si diventa “pentiti”. Ciò che induce a diventare collaboratori di giustizia non è la prospettiva di attenuanti o di revisione della pena, ma il “bisogno di un ponte”. E che cos’è un ponte? E’ ciò che consente al malvivente di passare da un ordinamento all’altro, dalle regole della criminalità a quelle dello Stato. Ed è proprio in quel passaggio, in quel momento vissuto intensamente, che il magistrato è colui che fa da tramite e consente il transito.