Capita spesso di sentire le lamentele di qualcuno che trova deludente la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria, sia essa un classico (anche mitologico) sia un romanzo contemporaneo.
L’argomentazione più gettonata è quella che attiene alla eccessiva semplificazione del testo filmico rispetto alla ricchezza, alla sottigliezza e alla profondità della scrittura. Ciò, peraltro, vale sia che si tratti di un lavoro fondamentale come Guerra e Pace sia che si tratti della trilogia di Stieg Larsson. Tanto per fare due esempi.
La tentazione di collocare le arti lungo una gerarchia di valori è stata sempre molto forte e si potrebbe ricondurre ad essa l’insieme di guasti ideologici e pratici che ha comportato credere a lungo nella primarietà di una o dell’altra arte. Tuttavia, quando si parla di cinema sembra che si vinca la sfida già in partenza, abituati come siamo a presumere che in fondo di esso possiamo parlare un po’ tutti, e farlo con un discreto buon senso, quasi quanto lo facciamo per il calcio, di cui ci sentiamo tutti esperti, nonostante sia materia infinitamente più elementare della creazione filmica.
L’equivoco si nutre di un pacchetto compatto di presunzioni, che qui accenneremo senza alcuna pretesa di completezza:
– La centralità della storia (nel senso della sua struttura e dei suoi contenuti narrativi)
– La conseguente centralità dei dialoghi
– Il dato cruciale della verosimiglianza
E’ molto probabile che nessun film – fosse anche riconosciuto come il massimo capolavoro di sempre – soddisfi esaustivamente tutti e tre i criteri di cui sopra. E’ invece molto probabile che manchi quasi sempre, nella considerazione estetica che la gente comune (ma non solo, ahimè) ha del cinema, un dato decisivo, che sarebbe esattamente questo: il cinema è fondamentalmente l’arte dell’immagine e del suo movimento, la storia (ovvero la narrazione) raccontata essendo nient’altro che il materiale originario che si organizza intorno alla centralità dell’immagine.
Come a dire che siamo in una posizione esattamente speculare a quella in cui storia e immagine (evocata) sono in letteratura o, persino, nel teatro.
Qualche esempio?
La sottile linea rossa, stupenda sinfonia di Terence Malick, è un film “di guerra”. Combattimenti, uccisioni, scenari bellici, quel minimo di forma narrativa, realizzano il suo concetto chiave: la follia della guerra. Ma se volete un film in cui la forza della dimostrazione divora la fascinazione delle immagini allora dovete rivolgervi a Orizzonti di gloria, del primo Kubrik, che rappresenta forse l’esempio più riuscito di cinema antimilitarista.
Quello che godrete in Malick è qualcosa che si nutre (moltiplicandosi) di immagini, meravigliose estatiche liriche, improvvisamente sporcate dal crepitio degli spari e dal rosso del sangue versato. Un affresco gigantesco attraversato dal soffio del respiro. Come lo stesso Kubrik seppe poi fare in Barry Lindon, una straordinaria sequenza di pannelli pittorici che si concatenano e si organizzano a raccontare, appunto, una storia.
Non conviene andare al cinema, se si ha in mente di rileggere Uomini che odiano le donne, opera di svariate centinaia di pagine, nelle due ore in cui si sviluppa la sua “traduzione” filmica. Soldi persi.