L’IMPORTANZA DELL’INDICE GLICEMICO NELLA SCELTA DEGLI ALIMENTI.

I carboidrati fanno ingrassare? No, no e ancora no. Essi costituiscono il carburante primario per l’organismo, e sono quindi essenziali per la sopravvivenza. È ormai accertato, però, che non tutti i carboidrati sono uguali, e che le differenze vanno oltre la distinzione tra “semplici” e “complessi”. Un parametro chiave è, infatti, il tempo di assorbimento: secondo gli studi più recenti, il rischio di cardiopatie non aumenta, ma può addirittura diminuire, consumando carboidrati a lento assorbimento, vale a dire a basso indice glicemico. Sarebbe a dire? Ebbene, l’indice glicemico (IG) non è un concetto astratto, e soprattutto la sua utilità va ben oltre la valutazione del rischio cardiovascolare.

L’IG è un sistema di valutazione fisiologica, anziché chimica, dei cibi contenenti carboidrati, in quanto esprime il reale impatto di un carboidrato sull’organismo. Non è altro, quindi, che una misura della capacità dei carboidrati contenuti negli alimenti di alzare la glicemia (concentrazione di glucosio nel sangue). Esso viene calcolato, attraverso una procedura standard, per tutti gli alimenti contenenti carboidrati, ed espresso sotto forma di un valore compreso tra 0 e 100. In tal modo, è possibile distinguere gli zuccheri digeriti, assorbiti o metabolizzati velocemente (ad alto IG, > 70) da quelli digeriti, assorbiti o metabolizzati lentamente (a basso IG, < 55). Tanto più un carboidrato è digeribile, tanto maggiore sarà il suo indice glicemico.

Dal 1981 a oggi si sono man mano chiariti i benefici per la salute di una dieta ricca di carboidrati a basso IG rispetto a quella con carboidrati ad alto IG: in primis, il miglioramento del profilo glicemico nei soggetti diabetici, nei prediabetici (insulinoresistenti e/o obesi) e nel diabete gestazionale; a seguire, la riduzione del rischio di diabete tipo 2 e di malattie cardiovascolari, soprattutto negli individui in sovrappeso e con stili di vita sedentari; il riequilibrio della colesterolemia e di altri fattori di rischio cardiovascolari, e un supporto significativo nel controllo del peso corporeo.

Dati preliminari suggeriscono inoltre una riduzione del rischio sia di alcuni tipi di tumore (mammella e colon-retto), sia di patologie oculari, quali la cataratta e la maculopatia degenerativa. Ecco perché, nel tempo, molti organismi internazionali di tutela della salute – per citarne un paio, Organizzazione Mondiale della Sanità e Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura delle Nazioni Unite (FAO)- hanno incluso, nelle loro linee-guida, riferimenti su una dieta a basso IG.

Ci si chiede, dunque, perché l’IG non sia ancora di uso corrente nelle campagne di educazione alimentare, né esistano riferimenti nelle linee guida nazionali, nelle tabelle di composizione degli alimenti e nelle etichette dei prodotti. Ciò che manca è, a monte, una legislazione apposita, condivisa e standardizzata, che regoli la materia attraverso una certificazione approvata.

Nel frattempo, è possibile introdurre cibi a basso IG nel piano alimentare della famiglia? Si! Molti degli alimenti a basso IG fanno già parte della dieta mediterranea tradizionale: lenticchie, fagioli, ceci, pasta e orzo. Per quanto riguarda il riso, invece, è il parboiled ad avere il più basso IG. Va comunque ricordato che per tutti gli amidi (pasta, riso, orzo, farro etc.), vale il principio secondo cui quanto più si prolunga la cottura, in acqua o altro liquido, tanto più rapida è la digestione enzimatica intestinale, con conseguenti aumenti dell’IG e del picco glicemico post-prandiale. Perciò qualunque amido, se cotto “al dente”, presenta un IG inferiore rispetto alla cottura prolungata ed è da preferire, ovviamente in assenza di problematiche gastrointestinali specifiche. Un altro accorgimento per abbassare l’IG 
è il raffreddamento in frigorifero degli amidi dopo la cottura, come nel caso delle insalate estive di riso, pasta, patate, cereali misti. Il condimento con aceto, insieme all’olio, riduce ulteriormente l’IG. Un’altra ottima abitudine sarebbe quella di optare sempre per prodotti integrali evitando le farine raffinate, per  evitare i picchi glicemici che agiscono sul pancreas, e consumare la frutta con la buccia, ricca di fibra. L’indice glicemico, inoltre, diminuisce se si aggiungono proteine e grassi ad un alimento, che hanno effetti molto simili a quelli delle fibre.

Alimenti ad alto IG sono ad esempio: pane bianco, pasta bianca, cornflakes, miele, patate (il cui IG cambia in base al metodo di cottura), cracker, riso arborio, zucchero saccarosio.

Alimenti a basso IG sono invece: pere, yogurt, latte di soia, fagioli bolliti, lenticchie, cereali integrali. Altri alimenti che aiutano nel controllo dell’Indice Glicemico sono inoltre: pesce azzurro, salmone, alici, sgombro, tonno, ricchi in omega 3; legumi, che contrastano i picchi glicemici e l’aumento di trigliceridi e colesterolo; carni bianche come tacchino, pollo, perché apportano proteine che contribuiscono a controllare i livelli di glicemia e sono povere di grassi; olio d’oliva ricco di composti fenolici; tè verde, nero, bianco; cannella, che sembrerebbe migliorare la sensibilità insulinica.                           

Un’alimentazione con un ridotto IG è un ottimo metodo per scegliere con criterio tra i cibi ricchi di carboidrati, ma non è l’unico riferimento di una dieta sana, i cui elementi imprescindibili, in grado di prevenire il rischio di malattie, sono anche le fibre grezze, la verdura e la frutta, l’olio extravergine di olive, e l’utilizzo di proteine vegetali rispetto a quelle della carne, soprattutto rossa.

La più recente review Cochrane (gold standard delle revisioni sistematiche della letteratura scientifica) sul rapporto tra regimi dietetici e perdita di peso, ha messo a confronto una dieta sana e ipocalorica e una dieta a basso IG, rilevando che la seconda ha una maggiore efficacia, soprattutto in termini di riduzione di massa grassa. Successivamente, lo studio europeo DIOGENES (DIet, Obesity and GENES) ha dimostrato che una dieta a basso IG e con un moderato incremento proteico risulta la migliore per perdere peso, ma soprattutto per mantenere nel tempo la perdita ponderale. Attualmente, i poli della ricerca di base e clinica sull’IG, oltre al Canada, coinvolgono l’Australia, gli Stati Uniti e l’Europa, con un’apprezzabile presenza italiana.