Perché è così forte la sensazione che siamo ancora ai festival di Sanremo dei primi anni ’50? Perché siamo devastati da questo insopprimibile deja vu che rinnova, ossessivamente, l’esperienza di un’italietta in debito d’ossigeno rispetto alla modernità?
Della musica che si ascolta durante le serate sanremesi non parliamo. Ci toccherebbe poi la sequela di insulti di coloro che pensano che la musica italiana sia cosa bella e grande……
Parliamo invece del costume, della civiltà, dell’antropologia di questo paese, così dannatamente in bilico fra una irrinunciabile indole imitativa (pensate per un attimo ai cosiddetti rockers nostrani….) e un equivoco orgoglio nazionale che si nutre dell’unico valore di cui possiamo vantare una qualche esclusiva: la furbizia sociale.
Una platea musicale che si traveste, per una manciata di minuti, in spazio scenico dedicato al tema dell’omosessualità è una cosa che farebbe gola a David Letterman e a i suoi siparietti al vetriolo. Intendiamoci, ma seriamente: il mio sgomento non è dovuto al numero dei due innamorati che vengono al festival a mettere in piazza le loro cose private; il mio sgomento è dovuto al fatto che in questo paese sia ancora necessario approfittare della vetrina di Sanremo per far passare il tema dell’omosessualità, che dovrebbe invece essere da tempo archiviato come “fatto”, svolto, digerito, legiferato!
Dovrebbe cioè essere già arretrato sullo sfondo come valore assimilato, metabolizzato dalla mentalità di un popolo, che invece – a quanto pare – trova indispensabile interrogarsi sui diritti privati di ogni individuo riguardo alla propria scelta sessuale!
Probabilmente la chiave di lettura con cui decodificare i testi (o meglio: i sottotesti) dell’abbuffata sanremese è tutta nel siparietto “ecclesiale” di Elio e le Storie Tese.
Artisti agghindati come monsignori che cantano testi di satira religiosa. Non siamo poi così lontani da Giordano Bruno e dai roghi in piazza Campo de’ Fiori!
Questo è ancora un paese la cui agenda culturale è gestita dalla religione cattolica, anche se nelle sue forme cangianti, nelle sue declinazioni camaleontiche (ricordate gli anni in cui si cominciò a celebrare messa con le chitarre e le canzoni?).
Altrimenti, Sanremo sarebbe quello che deve essere: un festival di pessima musica, interrotta solo dagli ospiti stranieri che – chissà perché? – accettano l’invito e infognano, con la loro incommensurabile qualità, il resto dello spettacolo.
Vi ricordate, tanti ma tanti anni fa, Peter Gabriel a Sanremo? Roba da vergognarsi solo a cantare subito dopo…