La rubrica dello psicologo, a cura di Cesare Ammendola
Da ieri non è solo un dilemma. È la domanda delle psicodomande. Voi la pensate come Selvaggia Lucarelli o come Massimo Giannini? Chi la dice giusta tra il noto e stimato editorialista de “La Repubblica” e l’acuta e popolare giornalista (e con lei la folla di “dislikers” e “memers” sui social)? Lo smart working fa bene o fa male alla psiche delle persone?
Confesso subito una cosa: io non ne ho la più pallida idea. Per me ha assolutamente ragione Massimo Lucarelli. O Selvaggia Giannini. Fate voi. Lo smart fa bene? Mi verrebbe da dire una cosa ovvia e poco appetitosa: “Dipende.” Nulla di più croccante o polemico. Ma io sono solo uno psicoterapeuta. Lavoro da trent’anni accanto alle persone reali e ho traversato lo tsùnami del lockdown e della Dad (ve li ricordate?), tentando di prendermi cura di persone dinanzi a una sfida del tutto nuova per il genere umano, mentre tentavo di prendermi cura di me stesso e delle persone care (i “congiunti”, quelli dell’autocertificazione, ve li ricordate?).
Lo smart fa male alla psicologia delle persone? Io risponderei così: “Dipende. Dipende dal lavoro che fai e da dove abiti.”
Devo essere più articolato e profondo? Allora oso: “Dipende dalle relazioni che hai nel posto di lavoro. Dipende da chi o cosa lasci a casa. Dipende da come stai a prescindere. Da quanto sei autentico nella realtà pre-digitale delle vicinanze, concreto nel metaverso digitale delle distanze, lontano e nascosto nei giardini siderali della convivenza e cooperazione quotidiana. Insomma, dipende da chi sei. Chi sei. Smart Ego o Smart Sé? Questo è il problema. Se riesci ad essere espressivo, fisico e prossimo in te e per te, puoi esserlo ovunque, anche in un videogioco che neppure l’Intelligenza Artificiale potrebbe. Perché naturali o artificiali noi lo siamo a prescindere. In soggiorno come in ufficio. In cravatta rossa o in pigiama Teletubbies. Nella solitudine davanti a uno schermo o nel cuore di una folla immensa. Nell’empatia e nell’incomunicabilità.
Ieri Giannini ha dedicato un editoriale interessante alla lode e alla celebrazione del lavoro in presenza. E, in una citazione colta e non meno che audace, ha scomodato il disagio psicologico e l’alienazione di un personaggio di “Shining” (una pellicola non ambientata nell’Italia del Covid ’19, beninteso) assimilando a tratti, nella chiave di un’iperbole, lo smart working all’alienazione di uno dei protagonisti del capolavoro di Kubrick. Secondo lui (Giannini, non Kubrick) lo smart working è un’abitudine insidiosa che può causare nello smart lavoratore l’asocialità e l’alienazione dalla realtà.
Il contatto umano reale, le relazioni “dal vivo” sono innegabilmente un valore aggiunto da qualche migliaio di anni nella storia dell’evoluzione umana. La rarefazione nella liquidità di nuovi binari e contesti della comunicazione non è sempre un bene auspicabile.
Non mi sento di dire che non ci sia del verosimile nelle parole di Giannini. Ma a patto che si colga la provocazione e il paradosso della caricatura di un’analisi psicosociale e non si prenda il suo testo integralmente alla lettera, senza fare i dovuti distinguo nell’arabesco di una riflessione più complessa.
Quella di Giannini è parsa qua e là (vedi Lucarelli) come un’uscita dell’elìte senza WiFi. Nello scollamento e disconnessione in assenza totale di segnale della “sinistra digitale” con le biografie reali e le sensibilità degli “operai” che prendono il treno alle sei del mattino per tornare a casa alle sette di sera. Sommando alle otto ore di lavoro altre due o tre o quattro per gli spostamenti. Direi che, se non è sempre necessario essere in presenza ogni santo giorno, lo smart può aiutare. Per sentirci vivi e lavorare bene, non necessariamente dobbiamo vidimare l’alito di un collega ogni mattino. Si può sopravvivere senza.
E, per inciso, a Giannini si potrebbe forse replicare dicendo anche che lo smart working potrebbe rappresentare persino una carezza per l’ecologia e la sostenibilità.
Ve lo dico. Ho visto gente che ad agosto è svenuta sulla scrivania in ufficio non per l’alienazione o per un colpo d’ascia, bensì per il caldo. Guadagnare anche un sol giorno a casa, un anelito di vita in una long-week è stato in molti casi balsamico e commovente. Il pc, il gatto, la bambina tra i compiti del pomeriggio, il profumo di casa. Ossigeno fuori dallo psico-hotel.
Ho visto gente costretta dal lavoro in presenza, per mille euro al mese (che pesa come un anno), a rinunciare a tutto. A un pranzo dignitoso e diversamente scongelato. A un sonno sindacale. A una vita privata (non al padel o all’estetista o all’apericena o al burraco, bensì all’amicizia, a una passione, a un libro, a se stessi).
Diciamolo nei titoli di coda. Rischia la sindrome di Kubrick invece chi indossa lavori noiosi, meccanici, mediamente usuranti o ripetitivi e poco creativi in preda all’angoscia di aver abbandonato i figli a casa coi nonni (viva semper i nonni, se ci sono) o con la baby-sitter.
Pertanto io la vedo proprio così, non ha ragione Cesare Lucarelli dopo aver ascoltato Stanley Giannini. L’unico che ha capito proprio tutto è Cesare Kubrick.