MATTEO MARIA BOIARDO

Matteo Maria Boiardo nacque a Scandiamo (Reggio Emilia), intorno al 1441, di Giovanni, legato alla corte estense da motivi di lavoro e di amicizia e Lucia Strozzi  sorella del poeta e umanista Tito Vespasiano Strozzi, era anche cugino di un altro illustre personaggio, Giovanni Pico della Mirandola.

Subito dopo la nascita di Matteo Maria, la sua famiglia di trasferisce a Ferrara fino alla morte del padre, nel  1551, e la madre decise di tornare a Scandiano.

Qui Boiardo studiò sotto la guida del cappellano di famiglia Bartolomeo da Prato. Adulto, assunse il titolo della signoria di Scandiamo e coltivò anche interessi culturali.

Fra il 1463 e il 1464 compose le sue giovanili opere poetiche latine: i Carmina de laudadibus Estensis (Poesie  in lode agli Estensi) e i Pastoralia (Poesie pastorali) la cui ispirazione proviene da Virgilio.

Presso Sigismondo d’Este nel 1469, conobbe  Antonia Caprara e se ne innamorò e per lei  iniziò a comporre  il Canzoniere.

Nel 1474 subì un attentato (il mandante era una zia che voleva il feudo tutto per il figlio, mentre invece veniva governato insieme dai due cugini). In seguito a ciò venne diviso in due parti e il letterato tenne per sé Scandiano.

Qualche anno dopo decise di trasferirsi a Ferrara presso  il duca Ercole I; scrisse gli Epigrammata (Epigrammi) cui ha come riferimento il poeta latino Marziale e cominciò a comporre il celeberrimo poema epico Orlando Innamorato. Nel 1479 tornò a risiedere a Scandiano e sposò Taddea Gonzaga. L’anno dopo Ercole lo nominò capitano, ossia governatore di Modena, carica che fu piuttosto impegnativa per la guerra tra il ducato di Ferrara (di cui faceva parte anche Modena) e Venezia. Ciò malgrado riuscì a comporre le Egloghe volgari, o Pastorale.

Anni dopo (1487) divenne capitano di Reggio, carica che ricopri fino alla morte.

Questo secondo governatorato fu più tranquillo del precedente, anche se ci furono comunque problemi con gli ufficiali finanziari di Reggio. Di questo periodo sono le Lettere, relative a questioni amministrative, e la commedia in terzine  il Timone. Morì a Reggio Emilia il 19 dicembre 1491.

La formazione di Matteo Maria Boiardo avvenne sotto una duplice influenza: quella culturale ferrarese dominata dalla lezione umanistica di Guarino Veronese, rimasto per più di trent’anni alla corte estense e quella dell’ambiente familiare, in cui si distinguevano  figure come il nonno Feltrino, umanista amico di Guarino e lo zio Tito Vespasiano Strozzi, apprezzato poeta latino.

L’opera latina di Boiardo è inferiore alla sua produzione volgare sia stilisticamente, linguisticamente e di ispirazione. Infatti, nelle raccolte latine, è evidente la volontà di fare erudizione e di esibire la propria abilità tecnica, conforme a certi canoni dell’epoca, a scapito della vena spontanea e genuina.

Ben presto però, l’onda innovatrice delle voci letterarie toscane  giunse fino a Ferrara, riportando in auge, a tutti gli effetti, il volgare.

Boiardo, abbandonò il latino per esprimersi in base ai nuovi canoni. Nelle sua opera più famosa, l’ Orlando Innamorato, rimasta incompiuta,  la lingua usata è il volgare, con il quale l’autore lega alla tradizione del romanzo epico-cavalleresco inserendovi il motivo encomiastico della celebrazione delle Casa d’Este della quale si immaginano i progenitori dell’eroe Ruggero, e Bradamante, donna guerriera  della Casa di Chiaramonte, sorella del paladino Rinaldo e anche cugina del celebre Orlando. Il poema di Matteo Maria Boiardo risente della sua natura umanistica e di nuovi valori: nell’Innamorato la forza motrice di ogni nobile impresa è l’amore  e l’ideale cortese modellato  sui valori dell’Umanesimo.

Da Amorum libri tres: Canzone in sette stanze, dove il tono predominante  è quello dell’entusiasmo, della gioia d’amore verso la donna amata.

 

     Quella amorosa voglia

che a ragionar me invita

in rime ascose e crude

di lungi alla mia diva,

doni soccorso alla mia stanca mente,

poiché me fa parlare

come Madona fosse a me presente.

     Candida mia columba,

qual è toa forma degna?

Qual cosa più somiglia

A la toa gran beltate?

Augella dell’Amor, segno di pace,

come deb’io nomarti,

che nulla cosa quanto te me piace?

     Arboscel mio fronzuto

dal paradiso còlto,

qual forza di natura

te ha fatto tanto adorno

di schieto tronco e de odorate foglie,

e de tanta vagheza

che in te racolte son tutte le mie voglie?

     Gentil mia fera e snella,

agile in vista, candida e ligiera,

sendo cotanto bella,

come esser puote in te mai mente altera

né de pietà ribella?

Però se in cosa umana il mio cor spera,

tu sola in terra èi quella.

     Lucida perla colta ove ne coglie

di precïose gemme ogni richeza,

dove l’onda vermiglia abunda in zoglie

e sopra el lito suo le sparge entorno,

serà giamai ventura

che a me dimostri sì benigno il volto,

che da te speri aiuto?

     Vago fioreto, io non ho vista audace

che fissamente ardisca de guardarti;

perciò tua forma e tuo color se tace,

che tanta è tua bellezza e nobiltate,

e di tal maraviglia,

che esser da noi cantata se disdegna,

e chiede magior trumba.

     Canzon, il cor mio lasso ormai se pente

sua dona ad altro più rasumigliare

ché sua beltade immensa no ‘i consente.

Lassa che Amor con sua man la descriva

tra le tre Ninfe nude:

la voce lor diversamente unita

dimostro tanta zoglia.

 

 

 

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