MONTALBANO IO NON SONO

Gentile direttore, Lunedì 23 sera, su Rai Uno c’è stata la replica di una puntata del Commissario Montalbano che si è dimostrato come sempre un abilissimo e simpaticissimo poliziotto ma nello specifico dell’episodio, che nasce dalla crudele uccisione di un cavallo da corsa, un superficiale amante da stalla. Ma non sono qui a fare il moralista o a criticare l’operato degli sceneggiatori  che riescono troppo spesso  a fare di questo poliziotto una macchietta senza valori né etica contro la sua stessa volontà ed a suo danno, al punto tale che persino lo splendido attore Luca Zingaretti se ne è pubblicamente e ripetutamente lamentato; ma si sa come vanno queste cose quando c’è di mezzo il mercato internazionale e bisogna fare soldi anche con qualche contentino alla pancia di un certo pubblico che francamente io credo che neppure esista… 

Ma veniamo al punto, voglio raccontare un episodio della mia infanzia che mi ha profondamente segnato e che mi è tornato alla mente seguendo questo episodio di Montalbano. Negli anni sessanta e settanta mio padre era un bravo e stimato medico legale, l’unico che in Provincia di Ragusa fosse in grado di eseguire un’autopsia e di redigere una relazione che fosse giuridicamente inattaccabile in dibattimento. Ebbene, un giorno i carabinieri lo chiamarono d’urgenza per un omicidio che era avvenuto a diciamo Vigata, e gli chiesero di verificare una serie di parametri e di analizzare il sangue lasciato forse dal presunto assassino, un mafioso. Mio padre eseguì  l’autopsia e prima ancora di portare i reperti anatomici ad analizzare fu contattato telefonicamente da un signore con accento palermitano che gli ordinava di non  approfondire le analisi del sangue se voleva campare. Mio padre che era figlio di un pastore valdese e che aveva ricevuto un’educazione calvinista, pur nel timore di essere ammazzato portò il tutto all’Università di Medicina Legale per gli esami di laboratorio ma gli fu vivamente impedito di lasciarli perché il Preside della Facoltà gli disse esplicitamente che era stato contattato e minacciato anche lui e lui teneva famiglia, come se mio padre non ne avesse una ed il Preside non fosse un servitore dello Stato. Così questo piccolo medico legale, piccolo solo perché alto un metro e sessantacinque, se ne ritornò a Vittoria, dove viveva ed esercitava, con le sue bocce piene di pezzi anatomici e di sangue. Dopo una notte agitata e svegliato da un’altra pesante telefonata minatoria, partì sempre solo ma in compagnia della sua fiat e dei suoi valori morali ed etici, a Siracusa dove un laboratorio privato ignaro di tutto eseguì le analisi che portarono all’incriminazione ed alla condanna a 30 anni del mafioso. Mio padre si chiamava Benedetto Mingardi e la mafia stranamente lo risparmiò ma non successivamente il tumore alla gola preso per la sua professione anche di radiologo.  Nessuno ha mai saputo di questo gesto se non mia madre ed io suo figlio Arturo che oggi ho deciso di renderlo pubblico per ricordare a Montalbano e prima ancora a tutti noi che ci sono valori superiori al proprio “piacere” personale a cui non si deve mai derogare.

Arturo Mingardi

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