Rassegna di donne in Camilleri, Sciascia, Dente Pirajno, Verga
Dobbiamo avere, i maschi, una gran paura della donna. Abbiamo attribuito, nella mitologia greca, a Pandora, la prima donna, la nascita delle sofferenze ed, in quella ebraica, al patto tra Eva e il Demonio la cacciata dall’Eden. Nel medioevo la paura fu tale che l’abbiamo vista come strega e bruciata viva. Abbiamo costretto i preti, i ministri di Dio, al celibato: nessun legame con la donna, qualche coito così, di straforo, ogni tanto ma legame mai, vietato.
Anche i poliziotti, ministri della giustizia, alla larga dalla donna. Così Salvo Montalbano, il commissario dei tanti romanzi di Andrea Camilleri, non ha una donna ma una eterna fidanzata e comunque alla larga: lui in Sicilia e lei a Boccadasse a Genova. Né si lascia cataminare dalla splendida Ingrid, la svedese fantastica di corpo, di testa, di tutto che vive a Vigata e che lo stima e lo desidera. Maigret, il commissario di Geoges Simenon, non ha accanto una donna ma una moglie totalmente dedita al marito e appiattita sul suo lavoro. “Come ogni investigatore che si rispetti, che abbia cioè di se stesso quel rispetto che vuole poi riscuotere dai lettori, Rogas viveva solo; né c’erano donne nella sua vita (pare, pareva anche a lui vagamente, avesse avuto moglie una volta)”. Così Leonardo Sciascia ci presenta l’ispettore Rogas protagonista de “Il contesto”. Come dire: quando si ha un ministero da compiere non si può avere accanto una donna.
Neanche a immaginarla una donna al fianco di don Balduccio Sinagra, il capo mafia di Vigata che attraversa diversi racconti di Camilleri. Grande uomo, don Balduccio, integro, sa stare al suo posto e riconosce e rispetta il ministero di Montalbano fino a chiederlo in aiuto quando ritiene che la giustizia dello Stato sia più opportuna della sua. Si riscontra, in Camilleri, un certo rispetto per gli uomini d’onore. Del resto anche Giovanni Falcone in “Cose di Cosa Nostra”: “Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?”. Nel romanzo, “Il campo del vasaio”, Camilleri mette a confronto don Balduccio con un altro uomino di fegato, tale Arturo Pecorini, il quale però non sa tenere a debita distanza una donna affascinante, Dolores, e diventa merda. Essere uomini di fegato è una cosa ma uomini d’onore è ben altra cosa per cui don Baduccio dichiara che lui la merda non la tocca con le mani e non si fa scrupolo d’aiutare Montalbano perché il Pecorini venga assicurato alla giustizia dello Stato. Tuttavia, nonostante la sua forza e il suo potere tutto maschile e solitario, don Balduccio non riesce a portare in salvo, fuori dalla mafia, il ragazzo che aveva cresciuto come un figlio e a cui aveva dato una vita pulita per riparare all’errore di averne ucciso ingiustamente il padre.
Ci riesce invece, nel romanzo “La mafiosa” di Alberto Dente conte di Pirajno, una donna, Mara Lumera diventata mafiosa dopo l’uccisione del marito facente parte del ristretto clan degli uomini d’onore tra cui don Pietrino Priolo, detto l’Addurmisciuto. In realtà tutt’altro che addurmisciuto (addormentato), piuttosto simile al personaggio che va sotto il nome di Giulio Andreotti nel film “Il divo” di Paolo Sorrentino, incarnazione del potere come puro esclusivo assoluto piacere non contaminato da altro: né sesso né gola né vanità al punto da devolvere tutti i suoi guadagni a una vecchia zia (o madre?) Badessa di un monastero sopra Posillipo. Don Pietrino, riconosce, nel marito di Mara, l’unico capace di insidiare il suo potere e lo uccide. Mara lo sa, accetta la sfida, si sostituisce al marito in tutto e per tutto, interagisce con l’Addurmisciuto, lo assiste anche durante una grave malattia, fino a quando non fa maturare il momento per ucciderlo con le sue stesse mani. Per questo ha vissuto, solo per questo. Nel frattempo allontana il figlio dalla Sicilia, lo porta fuori da Cosa Nostra, lo fa studiare in Germania dove si sposa con la figlia di un grande imprenditore. Non si è concessa altro. Ucciso il nemico e sistemato il figlio, si ritira in convento. Che, anche per la donna, i ministeri siano incompatibili con i legami sentimentali?!
Giovanni Verga ne “I Malavoglia” ci presenta ben altre figure di donne. Sono tante e sono forti le donne de “I Malavoglia” e con l’intreccio delle loro relazioni reggono la vita ad Acitrezza. E non era semplice ché la vita era dura e scoppiavano anche le liti. “Di solito gli uomini non s’immischiano in quelle liti di donne, se no le questioni s’ingrosserebbero e potrebbero andare a finire a coltellate; invece le comari, dopo che hanno messo fuori la scopa, e si sono voltate le schiene, e si sono sfogate a dirsi improperi, e a strapparsi i capelli, si riconciliano subito, e si abbracciano e si baciano, e si mettono sull’uscio a chiacchierare come prima”.
Comare Venera “la Zuppidda” moglie di Turi Zuppiddu il calafato col problema di maritare la bella figlia Barbara in un periodo in cui “i mariti sono scarsi, con questa leva del diavolo che si scopa tutti i giovanotti del paese”, equivalente al problema del futuro dei giovani d’oggi. Si fa avanti il potente don Silvestro, il segretario comunale, ma comare Venera lo scaccia risoluta perché capisce che non nutre affetto per la figlia ma mira solo alla dote e preferirebbe ‘Ntoni di padron ‘Ntoni perché “anche se non avete nulla, siete giovane, e ci avete la salute per lavorare, e siete del mestiere”. E al marito che tenta di intromettersi: “Voi tacete che non sapete nulla. I pasticci non mi piacciono! Andate a lavorare che non sono affari vostri.”
La cugina Anna, vedova e con Rocco, il figlio grande, scioperato e ubriacone eppure riesce ad avere il cuore allegro. “Quando è morto mio marito, Rocco non era più alto di questa conocchia e le sue sorelline erano tutte minori di lui. Forse che mi son perduta d’animo per questo? Ai guai ci si fa il callo, e poi ci aiutano a lavorare. Le mie figliuole faranno come ho fatto io, e fin quando ci saranno le pietre al lavatoio avremo di che vivere.”
Oggi abbiamo le lavatrici elettriche ma il problema di sistemare i figli e di che vivere è ancora uguale!
La “Santuzza” che da sola gestisce l’osteria, vende acqua per vino, tiene in peccato mortale massaro Filippo l’ortolano, che ha moglie e figli e, per risparmiare sul dazio del vino, se la intende anche con don Michele, brigadiere delle guardie doganali e tiene in casa ‘Ntoni che è giovane e forte e l’aiuta nel servire e con gli avventori ubriachi e però, all’ora della messa domenicale, chiude l’osteria e si tira in chiesa gli avventori perché lei è anche la superiora delle Figlie di Maria. Che donna! Si direbbe oggi: una donna con due palle così!
Betta, la figlia di mastro Croce Calà, il sindaco, e si diceva in giro che il sindaco lo faceva lei ché il padre portava i calzoni per isbaglio.
La Nunziatina, piccina, tanto piccina che non si vedeva sotto il fascio di ginestre che portava sulle spalle, orfana con una nidiata di fratellini che le andavano dietro che pareva la chioccia coi suoi pulcini, eppure non si perdeva mai d’animo, giudiziosa e con tanta forza da darne anche ad Alessi, il piccolo dei Malavoglia, che prende per marito e aiuta a riconquistare la casa “del nespolo”.
Per citare le più importanti ma non dimentichiamo la moglie di don Franco, lo speziale, che sgridava il marito come un bambino quando questi s’intratteneva a parlare di politica con gli amici; donna Rosalina che per la voglia del marito trafficava con i soldi del fratello, l’arciprete; donna Grazia che non si faceva scrupoli ad apostrofare le operazioni non limpide del marito Pidipapera, il sensale; la Vespa che riesce dove nessun altro era riuscito: far fesso zio Crocifisso “campana di legno”.
E poi, Maruzza “la longa”, moglie di Bastianazzo e nuora di padron ‘Ntoni, un po’ sottomessa – forse per questo i Malavoglia vanno incontro ai guai – e però col grande coraggio di soffrire e piangere in silenzio. Troviamo un riscontro in Zorro di Margaret Mazzantini.
[Mia madre] Era la persona più coraggiosa che ho conosciuto. Quel tipo di coraggio che è solo delle donne, gli uomini non ce lo possono avere un coraggio così. . . così zitto. C’aveva sempre il raschio in gola, per tutti i rospi che s’era tirata giù senza fare una piega. Davanti a noi maschi di casa sembrava che c’avesse paura, ma non era vero, lo faceva per farci sentire forti.
E Mena Malavoglia, la Sant’Agata tanto era assennata e lavoratrice, innamorata di amore corrisposto di compare Alfio, il carrettiere. Dopo le gravi disgrazie dei Malavoglia – un figlio morto in guerra, il vecchio padron ‘Ntoni morto di crepacuore in ospizio, Lia finita sulla strada, ‘Ntoni in carcere e poi sperso per il mondo – disgrazie che l’avranno sicuramente resa più forte ma che, altrettanto sicuramente, le avranno spento le “belle speranze”, Mena, pur avendo appena ventisei anni, rinunzia al matrimonio con Alfio che ancora la vuole in moglie e si ritira in soffitta e far da mamma ai figli del fratello Alessi e di Nunziatina. Una bella forza anche questa! Troviamo un riscontro in “Cronaca familiare” di Vasco Pratolini.
Inforcai la bicicletta per raggiungerti. Era già sera e le strade erano buie ed affollate, ma l’aria era ancora tiepida e il vento che mi batteva sul volto mi rallegrava. È l’ultima ora di contentezza che ricordo, non troverò mai più la felice disposizione di spirito che allietò quella sera. Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno lievita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali, che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala di una farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso e cosciente nella sua opera, ma non troverà più nel suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità. Era, quella sera, il 18 dicembre 1944.
Verga non poteva chiudere il romanzo col matrimonio di Alfio e Mena e con la frase: «ebbero tanti figli e vissero felici e contenti»? Forse Mena è il Verga stesso che dopo essere stato a Milano nel centro economico, politico e culturale dell’Italia unita, dopo avere intuito e raccontato con “I Malavoglia”, la vacuità delle magnifiche sorti e progressive nutrite col positivismo e con l’unità d’Italia, non può far altro che ritirarsi nel suo paese e attingere dal popolo il senso della vita.
Ne viene fuori una rappresentazione che, almeno ne “I Malavoglia”, possiamo sintetizzare così: tra il popolo senza potere e che lavora ha più peso la donna e le cose funzionano; tra i potenti ha più peso il maschio e il mondo va a scatafascio.
Ragusa, 22 agosto 2008
Ciccio Schembari
Pubblicato sul n. 38/2008 “Paure.” della rivista online www.operaincerta.it