Tracciare un ricordo del Prof. Antonino Di Vita, uomo di grande intelligenza e di altrettanta umanità, archeologo noto in tutto il mondo, studioso del mondo greco e romano, operatore culturale appassionato, significa attraversare il risveglio culturale del secondo novecento. Partendo dal nostro paese, dove era nato nel 1926 e dagli iblei dove visse la giovinezza e dove ritornerà, anche se illustre e famoso, per attingere e donare umanità, per condividere o promuovere progetti per il recupero della storia del nostro territorio.
Allievo di Santo Mazzarino e Guido Libertini nell’Università di Catania, si laureò in Archeologia e Storia dell’arte greca e romana, con dignità di stampa, nel 1947. Subito appresso ottenne il diploma di Perfezionamento presso la Scuola Nazionale di Archeologia dell’Università di Roma, e quindi passò ad Atene, grazie a una borsa di studio. Entrato nel ruolo delle Soprintendenze alle Antichità e Belle Arti, fu ispettore e poi direttore, in varie Soprintendenze. Ha insegnato presso le Università di Palermo, Perugia, e Macerata della cui Facoltà di Lettere prima fu preside e poi Rettore. Dal 1977 al 2000 diresse la prestigiosa Scuola Archeologica Italiana di Atene.
Di Vita è essenzialmente archeologo, qui si esplica e si pone a frutto la sua grande cultura ed esperienza accademica. La provincia di Ragusa, per prima, deve alla sua sagacia ed abnegazione la scoperta e individuazione o l’approfondimento metodologico, di numerosi siti (Camarina, Casmene, Scornavacche, Acrille, Monte Casasia, Rito); gli si deve ancor più, l’aver rivendicato e assegnato, i reperti scavati, alla comunità iblea (ad esempio col Museo Archeologico Ibleo, realizzato negli anni ’60). Lo stesso avvenne nel lungo e appassionato percorso, le cui numerose tappe furono contrassegnate da pubblicazioni o da prestigiosi incarichi, che lo vide attivo in Libia, Algeria, Tunisia, Grecia e paesi del Mediterraneo ellenico. Ha tenuto lezioni e conferenze in molti centri universitari italiani ed europei, ma anche all’Università di Sidney e in quelle giapponesi di Tokyo e Kyoto. È autore di circa 280 fra studi e articoli scientifici riguardanti i campi dell’archeologia e della storia dell’arte greca e romana. L’ultima monografia è dedicata a Gortina di Creta (2010, tradotta anche in greco ed inglese). Uscirà postumo, a cura del Centro studi F. Rossitto di Ragusa, un significativo studio sui ritrovamenti di c.da Rito, al quale l’autore lavorò fino agli ultimi giorni. È stato cofondatore e direttore per vari anni della rivista Libya Antiqua e direttore dell’Annuario della Scuola Archeologica Italiana di Atene.
Lo spessore dello studioso e del ricercatore sono attestate dalle alte onorificenze: Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica, per diretta iniziativa del Presidente della Repubblica (1977), seguita nel 1994, sempre da parte della più alta Autorità dello Stato, di quella di Cavaliere di Gran Croce. Inoltre fu Socio onorario corrispondente della Pontificia Accademia Romana di archeologia, dell’Accademia di Lettere Scienze ed Arti di Napoli; della storica Accademia dei Lincei. Che non soltanto rappresentano attestazioni di stima o riconoscimento del suo valore, ma sono percorsi di vita, incontri ed osmosi con la parte più vitale e produttiva della cultura contemporanea. Eppure chi incontrava quest’uomo difficilmente riusciva a percepirlo: la sua disarmante semplicità condita di signorile educazione, lasciava trasparire soltanto la grande umanità, dote che non fu mai inferiore alla sua grande cultura.
Era particolarmente legato alla sua terra e agli amici e conoscenti che puntualmente più volte l’anno tornava ad incontrare: per manifestazioni culturali o celebrazioni istituzionali, alle quali aderiva con disponibilità, o per occasionali festeggiamenti, incontri amichevoli o familiari. Gli studenti e i giovani ricercatori che lo interpellavano trovavano sempre un benevolo interlocutore, pronto a suggerire e persino a favorire ulteriori incontri ed approdi a materiali e fonti di studio.
Per la sua città ebbe sempre un particolare amore. Non molti sanno che la sua tesi di laurea era dedicata alla origini della comunità chiaramontana, quella Akrillai che fonti documentarie attestavano, ma la cui identificazione era vaga. Ebbene il Di Vita la individuò nel territorio chiaramontano, esaminando i reperti archeologici presenti nella vallata sottostante la città, raffrontando dati e vicende storiche. Con Ricerche archeologiche in territorio di Chiaramonte Gulfi, del 1954, Acrille, per tutti gli studiosi del mondo ha una precisa identificazione e collocazione. Ancora merito suo è la scoperta del sito di coroplasti e ceramisti a Scornavacche, nell’estremo lembo sud-ovest del territorio. Dal 1954 al 1959, in cinque campagne di scavi, riaffiorò l’antico abitato di epoca ellenistica di artigiani ceramisti e vasai, che utilizzando la ottima creta del luogo realizzavano oggetti di uso comune e religioso. I reperti sistemati, con la ricostruzione di una di queste botteghe completa di forno, nel neonato museo ibleo, possono essere ancor oggi ammirati.
Il convegno di studi nazionale del 1991, Acrille e Scornavacche, voluto e presieduto dallo stesso Di Vita, era omaggio e interlocuzione con la sua città: non solo esposizione delle scoperte, focalizzazione storica ed antropologica, ma progettualità per l’utilizzo e la fruizione, anche a fini turistici, del patrimonio archeologico. Che poi l’iter burocratico e la parziale attuazione del parco di Scornavacche, abbia avuto delle defaiance, questo attiene, purtroppo, alla inadeguata gestione della politica culturale, della quale oggi si palesano ovunque conseguenze e guasti. Contro i quali la voce indignata e la attiva proposta e partecipazione dell’archeologo e dell’uomo di cultura fu sempre viva: fino alla recente battaglia per impedire il degrado di Camarina a causa dell’erosione della costa, nella quale il prof. Di Vita fu in prima fila, anche contribuendo economicamente, fino alla soluzione positiva. In occasione del citato convegno fu edito un elegante volumetto con l’aggiornamento del suo saggio Vetro romano con scena di caccia da Chiaramonte Gulfi (1954). Il prof. Di Vita mi procurò tutto il materiale iconografico, una nuova introduzione ed una nota aggiuntiva della studiosa Mara Sternini. Ritenemmo però che la fotografia del reperto era opportuno che fosse a colori; e non esistendone alcuna ci rivolgemmo al Museo Archeologico di Siracusa, dove era custodito il vetro. Impossibile fotografare il reperto, mi disse la direzione in quanto archiviato nei depositi sotterranei e per prelevarlo occorreva una autorizzazione direttamente dal ministero, difficile da ottenere. Le foto a colore (di Giuseppe Cupperi) fecero bella mostra nell’elegante volume (riproposto in Da Siracusa a Mozia, scritti di archeologia siciliana, Padova, Bottega d’Erasmo, 1998); ricordo ancora la direttrice del museo, tra lo stupito e l’ammirato, che estraeva il vaso dall’imballaggio (nel quale era relegato da oltre mezzo secolo e nel quale sarebbe rimasto probabilmente per altrettanto) che esclamava “Solo il prof. Divita può tanto!”
Qualche anno fa l’ho incontrato nella sua casa di campagna, in contrada Buzzolera; mentre un muratore di sua fiducia stava operando lievi aggiustamenti alle pertinenze dell’antico casolare. Me le mostrò assieme alla casa, nella quale sperava di riapprodare sempre più spesso. Poi i discorsi che si fecero – attorno alla casa, al giovane uliveto che aveva impiantato nella parte settentrionale, alla cura di quello antico con gli alberi secolari, gli ulivi saraceni, che degradavano verso la sorgente di antica memoria – furono ordinari, nell’accezione della nostra gente: cioè comuni, un po’ frivoli e un po’ impegnati. Nel suo parlare c’era insieme conoscenza ed umanità, nell’ascoltare, saggezza antica.
Ecco perché resterà per sempre nel nostro cuore. Come l’amore per la sua terra e della sua terra, che aleggia e si legge in ognuna delle pietre che ha sottratto all’oblio del tempo…