Una delle finzioni più belle tra quelle concepite da Borges, prende spunto dall’interpretazione di un frammento della “Città di Dio” di Agostino, origine di una setta chiamata dei monotoni (o anulari). Da tale frammento, rimasuglio-rudere di un passaggio unno, i settari ne dedussero l’eterno ritorno, così come pensarono che Agostino lo presumesse insegnato dal filosofo greco, e in base al quale, egli stesso, Platone – alla fine dei tempi – sarebbe tornato in Atene a insegnare la medesima dottrina. Della stessa cosa parlava Vanini nel ‘600, quando scriveva: “Di nuovo Achille tornerà a Troia”. Ho sempre ritenuto entrambi tali riferimenti alla base della mia serenità. Ossia, mi tranquillizza l’idea che, nel tempo, ci sia sempre tempo per aggiustare ciò che qua e là si sbaglia con più o meno intenzionalità. Forse è proprio a causa di tale idea che sono giunto ad aderire senza tanta convinzione a un cristianesimo retroculturale, un po’ ipocritamente di facciata e per senso di appartenenza alla civiltà occidentale, come essa si è formata sino ad oggi. Più profondamente non riesco a fare a meno della forte convinzione di essere sostanzialmente panteista, o meglio pluralmente animista (credo moderatamente nell’esistenza della figura definita genius loci, ma lo faccio con buona dose di scetticismo), e sono giunto infine a costruirmi una panteologia personalissima, tendente simpaticamente all’ellenica circolarità pagana (senz’altro più comoda come religione, per le convenienze innanzi espresse). Ma, per fugare ogni dubbio in merito a una mia presunta e incipiente follia, devo precisare che osservo la questione in qualche modo ipostatica più con intenti letterari che altro.
Dunque si diceva dell’eterno ritorno: ci sono altre propedeuticità alla serenità dello spirito, tutte insite in tale forma d’immortalità del tutto terricola. Ad esempio la propensione a credere che gli affanni (anche quelli unidirezionali ed escatologici, oltremondani) siano del tutto vaghi e poco proficui nella applicazione pratica (mondana) dell’etica quotidiana (l’etica come imperativo categorico, nella sua espressione più pura probabilmente, come neanche Kant forse ardì pensare). Tra gli affanni più inutili – probabilmente – è da annoverare quello della politica. Un’inganno-finzione persino seducente, cui da peccatore talvolta non sono restio a indulgere. Scriveva Moravia: “…sfumata la credenza negli dei, svanite le innocenti e vetuste superstizioni che facevano di tutta la vita umana un solo rito, gli uomini pieni di voglie e di superbia erano ricaduti sopra se stessi, e non era rimasta che la politica. Ossia una specie di tragedia senza catarsi, recitata da personaggi che, nonostante gli alti coturni e le voci cavernose, non sapevano essere tragici; e le passioni e le fedi che in quei contrasti si rivelavano erano forti ed efficaci nella stessa misura che erano interessate. Gli interessi, insomma, determinavano ormai anche gli atteggiamenti più ideali”. Il rimedio, segnalava Moravia, è il disinteresse Olimpico, quello degli Dei di Omero, mentre osservano lo sfacelo dell’umano battagliarsi appena fuori dalle Porte Scee. Altro sfacelo – liricamente meno interessante, in vero – giace sotto gli occhi del paesaggista che si diletta di contemplare i percorsi e le brighe delle odierne fazioni politiche italiane. Non è qui il luogo per recriminargli qualcosa, ai nostri politici, almeno non oggi.
Rivolgo il mio sguardo, forse con un tantino di superbia, alla città per come la conosco (Scicli, Ragusa, poco importa), e il pensiero che tutto tornerà in qualche modo mi rasserena: gli odori del legno appena piallato, dei trucioli fulvi come i capelli degli achei (o come i boccoli di Shirley Temple, per quanto dal bianco e nero, il colore era solo immaginabile, d’altro canto analogamente ai capelli di Odisseo), l’odore del battuto ferro incandescente, i cementi naturali miscelati dagli alchimisti della muratura. Tornerò a passeggiare mano nella mano con mio nonno, tra i muri grigi dei bassi palazzi borghesi novecenteschi, macchiati di quelle muffe dalle forme strambe che tanto stimolavano la mia immaginazione. Era la città degli artigiani – lo era anche mio nonno – eroi della quotidianità cantata da Whitman. Essi torneranno? Non presto! Ancora Moravia scriveva: “Ma tutti questi inconvenienti … sono ancora sopportabili in paragone al danno di un’atmosfera come quella, di vivacchiamento promiscuo, di piaceri senza elevazione, di doveri senza eroismi”. Oggi non vi son più neanche i “doveri”, probabilmente, resta la promiscuità vana e la politica ancor più fatua. Leggo in questi giorni Guerra e Pace, per la prima volta, e mi capita di riflettere su quanta lontananza culturale c’è tra il nostro tempo e quello che rendeva possibile comprendere (e immedesimarsi) la ritirata scomposta, disastrosa e confusionaria, dell’esercito Russo dopo la battaglia di Austerlitz. In qualche modo questa impreparazione al peggio, che si avverte nella società di oggi, lascerebbe spazio all’angosciosa attesa di un disastro più o meno imminente, cui tutta la nostra civiltà si rinverrebbe catastroficamente in balia. Ma forse non sarà così, ed è meglio non pensarvi. Il punto è che la città (Scicli, ma anche Ragusa) non è più quel retaggio novecentesco di un eroismo banale e produttivo di cui protagonisti furono i nostri avi, artigiani, contadini (e la committenza borghese, occorre anche dirlo). Si stia attenti a non fare celebrazioni passatiste, quel superomismo di resulta, deduzione inconsapevole (forse più ambientale che dottrinale) di una interpretazione dannunzianesca del pensiero di Nietzsche (altro cultore dell’eternità temporale), non fu solo origine del boom economico, ma previamente anche tragica – e per fortuna irrealizzata – brama di dominio totale. La regolazione di quella tendenza fece la ricostruzione, il suo annientamento – privato di degna sostituzione – ci ha lasciati fermi e irresoluti, privi di idee sul futuro.
Avremo tempo per recuperare, al ritorno, così occorre sperare, ma senza fede. Poiché, di fondo, resta quel dubbio sulla possibilità di afferrare ciò che ci ritorna innanzi. Il racconto di Borges conclude la vicenda interpretativa degli anulari con la sconvolgente rivelazione che la frammentarietà della citazione agostianiana non consentiva di apprezzare in toto il messaggio del testo: il pensatore di Ippona aveva cioè inserito quella affermazione di Platone per confutarla in seguito (parafrasando idealmente l’Eco di Diario Minimo, nel 3000 gli archeologi e gli interpreti ricorreranno agli antecedenti orfici e delfici per tentare di decifrare l’inserto “dimmi chi sei?”, rinvenuto tra i testi attribuibili a un’antica società filosofale denominata “Il Volo”). Non sono convinto neanche minimamente dell’unidirezionalità del tempo, anche se poi, infine, tutto può essere… che ne so io?!? Il mio dubbio verte su altra circostanza inerente la curvilinearità. Chiarisco: e se non fosse circolare, ma a spirale? In questo grande timore risiede anche la fiducia per un rinnovamento possibile dell’uomo (finalità dell’agire, nella restrizione terrena del pensiero kantiano). Nel frattempo, bisognerà forse reimparare a fare gli artigiani.