Lo aspettavamo il Natale, non si andava a scuola, ci si alzava più tardi, si stava assieme a raccontarsi le storie. Ecco, le storie. Giocare era un occasione proprio per sentire storie frammiste di fantasie, di aspirazioni, di mezze bugie che camuffavano sogni e aspettative. La mattina di Natale
Mio padre ed io ci vestivamo a festa. Si andava dai parenti più anziani, di casa in casa ad augurare il buon Natale.. Si stava da ognuno di loro una quindicina di minuti, a volte di più, ed essi ti offrivano dolciumi, un regalino, per me c’era sempre qualche cento lire.
Le strade con le luminarie e qualche insegna pubblicitaria di panettoni con le lucine sfavillanti; invitavano a comprare, ma tutto su misura, niente di travolgente e sprecone. Ricordo un senso di pace diffuso, di sacralità. Ma ricordo quest’aria di religiosità, anche nelle persone, nelle parole, nei discorsi. La mia era una famiglia di comunisti e non era certo bigotto il senso del sacro che si respirava.
La sacralità è lentamente scivolata nell’immaginario tecnologico. L’adorazione del progresso tecnico ed economico ne ha frantumato i riti di rigenerazione, dell’amore e del dono.
Oggi bimbi annoiati anni non hanno più giocattoli nelle loro camerette, ma solo Playstation, Game Boy e cellulari sofisticatissimi. Impulsi elettronici anziché vibrazioni umane.
Penso che i regali più grandi che si possano fare a dei bimbi oggi sono molto particolari e a bassissimo costo: amici al posto di Playstation, genitori al posto di baby-sitter elettroniche, libertà e consapevolezza al posto di catene telefoniche, senso di giustizia e condivisione al posto di egoismo e prevaricazione e infine e soprattutto” no” quando è no e “sì” quando è sì. Regali per amore e non per smaltire un’assenza che duole.