Il governo delle larghe intese, quasi imposto dal Capo dello Stato per risolvere lo stallo istituzionale derivato dalla sostanziale inestricabile parità tra le diverse forze parlamentari, nasce con le migliori possibili intenzioni.
Con la malcelata intenzione di chiudere un altro ventennio epocale della storia italiana, vuole rimettere insieme i cocci di un bipolarismo mai concretamente realizzato, tentando di far percorrere un cammino comune a berlusconiani e post comunisti. Il fine precipuo è quello di stabilire regole istituzionali che sanciscano un reciproco riconoscimento tra le forze politiche e diano la possibilità a chi vince di governare, senza ostacoli e impedimenti di carattere politico.
Poiché sarebbe stato pretestuoso limitare a questo il programma di governo, sono auspicabili altri tentativi di cambiamento e di rinnovamento che, ove realizzati, renderebbero nobile il disegno del Capo dello Stato e potrebbero escludere qualsivoglia riserva sulla strategia. Se si riuscisse, per esempio, ad eliminare il finanziamento pubblico ai partiti, a ridurre il numero dei parlamentari, a rivedere l’assetto amministrativo del paese, a introdurre l’elezione diretta della prima carica dello Stato, si potrebbe arrivare ad un sistema politico istituzionale al passo con i tempi e degno delle tradizioni storiche del nostro paese.
Non mancano però, e non sono poche, le voci dissenzienti rispetto a qualsiasi forma di larghe intese, ancorchè finalizzate alla realizzazione di quanto sopra accennato. E sono proprio queste posizioni divergenti e contrastanti che lasciano seri interrogativi sulle possibilità di una sopravvivenza del governo nel medio termine. Anche perché, come spesso accade da noi, non c’è, primariamente, un dibattito su programmi, strategie, metodi e tempi quanto piuttosto l’opposizione al disegno in nome di strategie di potere e interessi di parte che emergono non solo fra le opposte fazioni, ma, addirittura all’interno degli stessi partiti maggiori delle rispettive coalizioni.
Questo è quello che viene percepito dall’opinione pubblica, ammantando con una coltre di sottile nebbiolina un aspetto che, invece, costituisce, forse, la vera svolta storica al ventennio berlusconiano, di cui pochi, ad eccezione degli addetti ai lavori, hanno contezza.
Quello che la gente aborrisce come mostruoso inciucio di forze che si sono confrontate anche in maniera aspra, non è altro che un governo a guida democristiana, un monocolore D C come si sarebbe detto una volta. Basta assaporare il retrogusto del nuovo esecutivo per apprezzarne profumi che ci sono stati familiari per oltre quarant’anni.
A leggere bene la formazione di governo, può sembrare paradossale che appunto l’ultimo dei comunisti di una volta, sia pure della componente più vicina al centro, abbia escogitato una tale strategia ma, in effetti in questo c’è la conferma del ricorso al DNA democristiano attraverso la cui cultura della mediazione raggiungere gli obiettivi, a questo punto considerati improrogabili ed essenziali per la vita repubblicana.
E non mancano gli aspetti significativi che fanno anche intravedere quelli che il Partito Democratico può anche aver considerato come vantaggi in relazione ai non indifferenti problemi interni, il più imminente dei quali è la scelta del nuovo segretario. Ma non mancano le considerazioni sulle opportunità di andare di nuovo al voto, in un momento di evidente crisi del partito, in cui, tutto malgrado c’è sempre una maggioranza numerica alla Camera, una relativa al Senato e l’occupazione delle prime quattro cariche dello Stato.
Il problema di fondo resta quello della genesi del PD, contro cui in queste ore si scaglia Veltroni, l’irrealizzabile coesistenza fra ex comunisti ed ex democristiani. Non è un problema di poco conto, risolvibile, in breve, solo con una scissione dagli esiti imprevedibili, soprattutto per gli ex comunisti.
All’insegna della cultura della moderazione e della mediazione sono intanto diminuiti o scomparsi le presenze dei falchi berlusconiani, per ora accampati nei giardini i di casa, il contorno di soubrette e showgirl, le sentinelle dell’ortodossia post comunista, i dinosauri ormai al soglio della pensione.
Certo non è confortante, in ogni caso, constatare che, per cambiare il paese occorre affidarsi agli eredi di un partito scomparso vent’anni orsono. Segno che, all’epoca, non furono pochi gli errori commessi nella furia giustizialista.
L’esecutivo è formato da diversi esponenti di PD e PDL che sono o rappresentano larga parte dei politici di provenienza DC. La crema è rappresentata dai quarantenni che vent’anni fa costituivano il gruppo dirigente del movimento giovanile della Democrazia Cristiana: Alfano, Franceschini e Letta, cui si aggiungono Lupi, Mauro e DelRio. Ci sono i figli d’arte, come D’Alia e Quagliariello, o esponenti comunque vicini a Letta, come la Lorenzin o la Carrozza, per non dire della pidiellina Di Gerolamo consorte del suo braccio destro Francesco Boccia.
Un governo di chiara matrice democristiana, anche se, al riguardo, va annoverato il dissenso di un mostro sacro della DC, l’ex ministro Mannino, che rifiuta l’etichetta democristiana per il governo.
Secondo l’emerito esponente della DC i democristiani confluiti nel PD avevano deciso di essere rivoluzionari, quelli avvicinatisi al PDL lo avevano fatto in una sorta d reazione all’egemonia della sinistra, ma la DC non era né rivoluzionaria né reazionaria, per cui rigetta l’ipotesi di una resurrezione democristiana nell’attuale forma di governo, pur riconoscendone l’impronta genetica inalterabile.
Su queste ipotesi va poi incardinato il dibattito se il ritorno sulla scena della vecchia scuola democristiana possa o meno essere un beneficio per il paese. Naturalmente ci saranno quelli che considereranno l’eventualità come una disgrazia, ci saranno altri che saranno contenti e considereranno il ritorno la cura migliore per i malanni.
Per quello che ci riguarda localmente, comunque vada a finire, non ci mancherà certo la medicina democristiana, avremo, addirittura abbondante materiale dove prelevare le staminali per perpetuare la specie.
Principe di Chitinon