SALVATORE QUASIMODO

Salvatore Quasimodo nacque a Modica, in provincia di Ragusa, nell’ agosto 1901 da una famiglia modesta, il padre era ferroviere. Si diplomò geometra a Palermo, trasferendosi a Roma nel 1919, dove trovò impiego nel Genio Civile.

Per lavoro è costretto a frequenti spostamenti (Sardegna, Liguria), fino a quando, negli anni trenta, si stabilisce definitivamente a Milano e qui frequenta ambienti letterari e artistici.

Dal 1941 insegna letteratura italiana al Conservatorio Musicale.

Riceve il premio Nobel per la letteratura nel 1959 che lo consacra alla fama. Muore a Napoli, improvvisamente nel giugno 1968.

Quasimodo era poeta e traduttore di poeti. La sua produzione  è stata molto ampia: dall’esordio, molto vicino alla scuola ermetica (Acque e terre, 1930; e soprattutto Oboe sommerso, 1932), sino alla fondamentale raccolta che riunisce tutto il lavoro precedente Ed è subito sera, 1942; poi passò alla stagione postbellica dove sviluppò un suo impegno politico e civile  e quindi un mutamento di rotta, almeno parziale anche nella scrittura: su questa linea si trova Giorno dopo giorno, (1947), Il falso e vero verde (1956), e l’ultima raccolta Dare e avere (1966). Per quanto riguarda le traduzioni ricordo quelle notevolissime dei Lirici greci (1940), e quelle da poeti moderni in  particolare il cileno Pablo Neruda (1952).

Quasimodo fu molto celebrato, seguito e imitato soprattutto negli anni centrali della sua carriera, tanto che i versi della poesia novecentesca  contemporanea sembrarono identificarsi nella triade  Ungaretti, Montale, Quasimodo. In seguito però la critica fu piuttosto sfavorevole, basti pensare, ad esempio che Contini, considerava le traduzioni  e non le poesie che scrisse lui, il punto più elevato del suo lavoro; ancora più brutale fu Mengaldo che, ribadendo il primato di traduttore dice a proposito del lavoro del poeta “l’arguzia intellettualistica […] o la banalità sentimentale” del Quasimodo ermetico, e la “nobile retorica” del Quasimodo civile. Brutta bestia l’invidia di un Nobel, aggiungo io!

Va sottolineato che certi contrassegni formali tipici del suo linguaggio nella fase ermetica restano anche nelle fasi o, per meglio dire, nelle esperienze  successive: il gusto spiccato e insistente per analogismi e metafore, la predilezione  per le sinestesie (sensazioni), il  frequente  impreziosimento di mito e simbolo e allo sviluppo del testo poetico attraverso associazioni vaghe, allusive, ambigue, più che nessi chiari; nonché sul piano tematico e mediterraneo, con l’immancabile Sicilia immobile e arcana recuperata dalle sue origine greche, cromaticamente intensa. I temi della guerra e la volontà etico-politica  di “rifare l’uomo”  per dirla con le sue parole, sul piano formale la ricerca  di una nuova poesia corale dotata di concretezza e realismo non sempre vengono realizzate appieno.

Quasimodo pochi giorni prima di morire, il 4 giugno 1968 venne a Ragusa e tenne  una lezione all’ Istituto  Tecnico Commerciale e per Geometri “Fabio Besta”, una foto e un commento sul retro da parte di uno studente, Mario Nobile ne testimonia l’avvenimento vissuto in prima persona.

 

Ora alcune poesie di Salvatore Quasimodo:

 

 

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

 

ALLE FRONDE DEI SALICI

E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

 

RIFUGIO D’UCCELLI NOTTURNI

In alto c’è un pino distorto;
sta intento ed ascolta l’abisso
col fusto piegato a balestra.

Rifugio d’uccelli notturni,
nell’ora più alta risuona
d’un battere d’ali veloce.

Ha pure un suo nido il mio cuore
Sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.

 

ORA CHE SALE IL GIORNO

Finita è la notte e la luna
si scioglie lenta nel sereno,
tramonta nei canali.

È così vivo settembre in questa terra
di pianura, i prati sono verdi
come nelle valli del sud a primavera.
Ho lasciato i compagni,
ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura,
per restare solo a ricordarti.

AI QUINDICI DI PIAZZALE LORETO

Esposito, Fiorani, Fogagnolo,
Casiraghi, chi siete? Voi nomi, ombre?
Soncini, Principato, spente epigrafi,
voi, Del Riccio, Temolo, Vertemati,
Gasparini? Foglie d’un albero
di sangue, Galimberti, Ragni, voi,
Bravin, Mastrodomenico, Poletti?
O caro sangue nostro che non sporca
la terra, sangue che inizia la terra
nell’ora dei moschetti. Sulle spalle
le vostre piaghe di piombo ci umiliano :
troppo tempo passò. Ricade morte
da bocche funebri, chiedono morte
le bandiere straniere sulle porte
ancora delle vostre case. Temono
da voi la morte, credendosi vivi.
La nostra non è guardia di tristezza,
non è veglia di lacrime alle tombe:
la morte non dà ombra quando è vita.

 


Come sei più lontana della luna,
ora che sale il giorno
e sulle pietre batte il piede dei cavalli!

 

 

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