SALVATORE QUASIMODO TRA GLORIA ED OBLIO

Quasimodo è sicuramente, fra i poeti del Novecento, quello che ha subìto da parte della critica gli attacchi più duri e, in alcuni casi, anche di bassa lega.

Il giudizio della critica militante si è snodato su due linee di movimento diverse, che hanno condotto a risultati contrastanti e non tali da poter essere assunti come fonti di indiscutibile autorevolezza, essendo viziati da pregiudizi mentali e “pre-comprensioni ideologiche”.

È importante, a nostro giudizio, cercare di capire come la critica letteraria si sia posta di fronte al Nobel di Modica, per poi giungere a delle considerazioni conclusive. 

Il placet e il riconoscimento valoriale della critica e del mondo intellettuale 

È fuor di dubbio, anzitutto, che l’ingresso di Quasimodo nella letteratura ufficiale ebbe il suo “placet” da parte di grandi intellettuali del tempo, quali Montale, Ungaretti, Solmi, Anceschi, Bo, Oreste Macrì, i quali espressero giudizi positivi sull’opera poetica di Quasimodo.

Montale, ad esempio, recensì Acque e terre con parole di elogio, mentre fu proprio Oreste Macrì a coniare quella espressione di “poetica della parola” in cui la produzione quasimodiana venne inquadrata.

Quasimodo entrò, dunque, sulla scena della poesia con grande consenso critico e, soprattutto, con un successo decretato dal fatto che era riuscito, in piena guerra, a moltiplicare le edizioni del suo Ed è subito sera (tre edizioni fino al febbraio del 1944, dieci fino al febbraio del 1960), nonché a ricevere apprezzamenti a livello internazionale.

È rilevante, pertanto, il fatto che Quasimodo trovi, negli anni ’30, una grande accoglienza nel mondo letterario che diventa più consistente negli anni ’40 all’interno della scuola ermetica fino a tradursi in un incondizionato successo popolare nell’immediato dopoguerra e in stima e apprezzamento internazionali che lo candidano al Premio Nobel per la Letteratura nel 1959.

L’atteggiamento della distanza critica e dell’isolamento culturale 

L’assegnazione del Premio Nobel rappresenta per Quasimodo l’inizio di un capitolo caratterizzato da invettive, denigrazioni, critiche aspre e violente.

Fu come se, improvvisamente, si fosse aperta attorno a lui una voragine tesa a decretarne la fine, per cui è lecito chiedersi che cosa sia successo e quali fatti abbiano causato questa denigratoria linea di movimento della critica militante, che fece il possibile per isolarlo.

Noi riteniamo che all’origine dell’isolamento culturale ci siano ragioni poco nobili, che nulla hanno a che vedere con l’evoluzione del pensiero poetico quasimodiano. Bene ebbe a dire il critico Giuseppe Zagarrio, quando evidenziò che quella di Quasimodo è una vicenda “affidata piuttosto agli umori e ai risentimenti che alla responsabilità della ricerca obiettiva”.

In altre parole, nel dopoguerra più che guardare ai testi quasimodiani con l’obiettivo di scorgervi nuovi orizzonti e nuovi dinamismi di contenuto e di estetica, la critica tentò un’operazione di stroncatura per non aver gradito l’inaspettato successo del poeta modicano e la conseguente assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura da parte dell’Accademia Svedese.

I “risentimenti” e gli “umori” di cui parla Zagarrio non possono che riferirsi a questa vicenda.

Naturalmente occorreva trovare qualche elemento ufficiale di accusa a livello letterario, così da poter giustificare le critiche, le stroncature, i silenzi, le prese di distanza dall’il-lustre Quasimodo che, poco prima, era stato innalzato agli altari della poesia.

L’accusa è quella di tradimento della poetica iniziale: il poeta modicano avrebbe abbandonato la poetica ermetica per affidarsi ad una ricerca etico-espressiva più autonoma rispetto alla scuola dell’ermetismo, e ciò non per una matura convinzione letteraria, ma per puro esercizio e – come rileva Giacinto Spagnoletti – per mero opportunismo storico, civile e per un artificio etico.

Una volta trovate le motivazioni, in seno alla critica si è verificato una sorta di “effetto alone” che ha condizionato i giudizi critici, quasi tutti improntati a visioni negative e di deprezzamento del valore poetico dell’opera di Quasimodo.

E ad abbattere il primo fulmine sul Nostro è Gianni Pozzo nel suo volume La poesia italiana del Novecento”, pubblicato nel 1965, ove tuona con parole denigratorie e di totale disistima:

 “…È una poesia, insomma, questa di Quasimodo, fino al periodo di Erato ed Apollion (1932-36), che non persegue suggestioni di canto, sentimenti o ragioni da esprimere, dolcezze o dolori nel senso dell’ordine umano e naturale, ma soltanto le geometrie rigorose di un particolare meccanismo, l’astrattezza di indeterminate voci e figure, scintillanti come pure simboli astrali, nel cielo di una metafisica memoria […] Si potrebbe anche concludere che nel momento stesso in cui falliva una poesia, Quasimodo indovinava una poetica  […] ”.[1]

La critica di Pozzi assume toni avversativi e di stroncatura anche nei riguardi dell’ultimo Quasimodo, quello aperto all’impegno etico e sociale, tant’è che non manca di elargire, sempre nella predetta Antologia, giudizi negativi e accuse cariche di toni ironici.

Stando alla critica pozziana, come si può non dissentire da quello che egli scrive? Come si può accettare l’affer-mazione secondo cui la poesia di Quasimodo fino al periodo di Erato ed Apollion (1932-36) non persegue suggestioni di canto, sentimenti o ragioni da esprimere, dolcezze o dolori?…

Nella prima produzione poetica quasimodiana c’è, al contrario, a nostro giudizio,  un magma sentimentale fluido e fortemente caratterizzato da un eloquio interiore ricco di pathos e di umanità.

È sufficiente, a riguardo, leggere poesie come Vento a Tindari, Si china il giorno, Vicolo, Nessuno, contenute nella raccolta Acque e terre o, ancora, Curva minore, La mia giornata paziente, Primo giorno e tante altre, che non citiamo, incluse nella silloge Oboe sommerso.

Certo, non si può negare che in alcune liriche si noti una ricerca della parola e un rigore geometrico giuocato – per usare la frase di Montale – su quella patina di distacco e su quel sereno acume dell’intelligenza che furono vanto della poesia dei classici, pur tuttavia ciò non può autorizzare ad affermare di essere in presenza di una poesia priva di suggestioni di canto, sentimenti o ragioni da esprimere.

Ci sembra, infine, non condivisibile l’interpretazione di Pozzi relativa alla svolta della lirica quasimodiana verso un impegno etico e sociale come un mero e semplice artificio etico ed un giuoco di “stilizzazione retorica”, come pure poco generosa risulta la lettura critica di Quasimodo fatta da Giacinto Spagnoletti allorquando, già prima dell’assegnazione del Premio Nobel, nella sua Antologia della poesia italiana [2] ebbe a contestare il passaggio quasimodiano alla poesia dell’impegno etico e sociale, giudicato un esercizio letterario senza centro e senza scopo.

La tesi spagnolettiana si fondava sulla convinzione della incapacità di Quasimodo di poter affrontare il suo nuovo percorso poetico. Spagnoletti riteneva che il poeta  per partecipare le sue scoperte, le scoperte del mondo quotidiano, doveva afferrarsi ad una qualità diversa di voce e di pronuncia: doveva ritornare, in un certo senso, alle origini, rimettersi all’immediatezza del canto, con tutto il sacrificio che esso comporta. E invece il poeta, privo di questo coraggio, s’è abbandonato unicamente alle sue doti letterarie. Ha aumentato il calore del discorso, portandolo spesso ad un piglio oratorio, ha affinato il gusto delle analogie, ha esagerato il giuoco delle immagini, ha impreziosito il carattere di quell’idillismo, che si celava, come sappiamo, al fondo della sua poesia più ‘macerata’; muovendosi con una indubbia eleganza proprio in quell’atmosfera di gusto impressionistico e decadente, a cui avrebbe dovuto sentirsi più estraneo[3] .

La critica spagnolettiana, pur se condotta con eleganza dialettica, non lasciò spazi al dubbio circa il poco gradimento del nuovo percorso quasimodiano, stroncato sul nascere perché considerato artificiale, opportunistico, non supportato da ragioni sociali e di sentimento vere ed autentiche.

Il peso di queste valutazioni critiche sulla poesia quasimodiana ebbe forti risonanze nell’ambito della critica militante, se è vero che a dieci anni di distanza dall’ assegnazione del Premio Nobel, Edoardo Sanguineti, nella sua Antologia Poesia italiana del Novecento, [4] stroncò la poesia di Quasimodo affermando che il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa, ma nelle traduzioni dai Lirici greci …[5]

Via via negli anni, la svalutazione di Quasimodo, a parte alcuni interventi più generosi e benevoli, si è andata intensificando e l’acrimonia nei suoi riguardi ha toccato punte tali da creare attorno a lui uno “stato di isolamento e di silenzio”.

Il volume di Niva Lorenzini, Il presente della poesia 1960-1990 [6] non cita, per esempio, neanche il nome di Quasimodo; Alfonso Berardinelli non lo include tra i Cento poeti che illustra; Giuliano Manacorda nella sua Letteratura italiana d’oggi 1965-1985, parla di Quasimodo solo in riferimento ad una nota relativa ad un premio assegnato a Zanzotto; Giulio Ferroni nella sua Storia della Letteratura Italiana[7],  lo snobba, dedicandogli appena 37 righe.

Insomma, Quasimodo è stato sottoposto ad una sorta di vero e proprio “stato di assedio”, che ha avuto il suo culmine nell’affermazione di Stefano Giovanardi, il quale[8] ha definito il Nobel un ‘minore’ di grande talento, costretto dalla storia e dalle circostanze a sentirsi un ‘maggiore’ e a scrivere come tale. 

Considerazioni conclusive 

Alla luce di questo percorso, appaiono molto discutibili i giudizi negativi espressi dalla critica ufficiale, anche perché quando ci si addentra nel mondo della poesia “ i nostri giudizi – come afferma il Pope – sono come i nostri orologi, i quali non si trovano mai d’accordo, ma ognuno di noi crede al suo”.

Ciò che ci preme è, invece, sollecitare una nuova ricerca, serena ed obiettiva sull’autore, priva di tutti quegli orpelli che non possono non far pensare che nel recente passato sia stato consumato, nei riguardi di Quasimodo, un complotto letterario teso a distruggere, più che la sua poesia, il Nobel che gli è stato assegnato. Quasimodo infatti ha avuto il torto di essere stato candidato da cattedratici di lusso al Premio letterario internazionale di più alto livello.

Il lettore di poesia più disincantato, nel trovarsi di fronte a giudizi così pesanti e negativi circa i versi quasimodiani, sicuramente, infatti, si sarà chiesto: ma come hanno potuto gli accademici di Svezia non accorgersi:

– che quella di Quasimodo era una poesia senza suggestioni di canto, sentimenti o ragioni da esprimere?

– che le immagini di Giorno dopo giorno erano immagini sottratte al museo di cartapesta della retorica poetica nazionale?

– che la poesia di Quasimodo aveva consumato un tradimento sia in termini storici che estetici?

– che la sua lirica non era altro che un esercizio letterario artificiale ed opportunistico, e che nel momento stesso in cui falliva una poesia, Quasimodo indovinava una poetica?

Se il Nobel è stato assegnato ad un mediocre dilettante della poesia, a uno dei peggiori poeti italiani, come ebbe a dire Pasolini in un’intervista riportata su “Gente” del 17 novembre 1975, c’è da rimanere preoccupati circa i criteri e la qualificazione di questi cattedratici dell’Accademia Svedese.

In verità, noi riteniamo che Quasimodo sia da considerare la vittima di un “accanimento letterario” ininterrotto, determinato da quel rapido successo ottenuto in pochi anni e che è stato mal digerito da coloro che muovevano i fili della cultura italiana nel periodo bellico e del dopoguerra.

Forse è giunto il tempo in cui la critica ufficiale debba affidarsi più allo studio obiettivo della produzione poetica quasimodiana e dei suoi testi e discorsi, piuttosto che continuare ancora questa diatriba che, come acutamente sosteneva Zagarrio, è risultata viziata e condizionata da “umori e risentimenti”. Lo studio e la ricerca letteraria, la scoperta di nuove prospettive di contenuto e di estetica non possono, certamente, cedere a forme di emotivismo e di tendenze ideologiche, se non vogliono risultare prive di fondatezza e di rigore scientifico. Ciò che serve è rimettere in movimento l’immagine di questo “Nobel venuto dal Sud”, attraverso l’analisi di alcuni suoi testi poetici, di alcune lettere e discorsi, scelti. È dai testi, infatti, che bisogna arrivare a delle conclusioni ed è nei testi che è possibile scorgere la fragilità e la grandezza di questo poeta, il quale, nella gloria e nella gogna, ha fatto parlare molto di sé e, pertanto, non può essere consegnato all’oblio.


[1] G. Pozzi, La poesia italiana del Novecento, in Plinio Perilli, Poeti e Poesia, Rivista internazionale, anno 5, n. 3, 2001, Pagine, p. 80.

[2] 1909-1949, Guanda, 1950.

[3] Ibid., p. 82.

[4] Einaudi, 1969.

[5] Ibid, p. 84.

[6] 1991.

[7] Einaudi.

[8] “Repubblica”, 11 agosto 2001.

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